Il lavoro più duro per Giorgia Meloni inizia ora, superato lo scoglio dell’accordo quadro sui dazi chiuso da Donald Trump e Ursula von der Leyen dopo un negoziato sfibrante. Quella sottoscritta a Turnberry è un’intesa «di massima, giuridicamente non vincolante, quindi c’è ancora da battersi», si dice convinta la premier lasciando lo Sheraton di Addis Abeba per raggiungere il summit dell’Onu sulla sicurezza alimentare. Meloni è pronta a battagliere, deve farlo su più fronti per scudare l’export italiano che rischia di uscire dalla guerra commerciale voluta dal tycoon con le ossa rotte. Innanzitutto, da brava “secchiona” quale i suoi le imputano di essere, conoscere l’intesa a menadito. «Bisognerà studiare i dettagli dell’accordo, verificare quali sono le possibili esenzioni», e qui lavorare di sponda, tra Washington e Bruxelles, per fare in modo che nella lista entri quanto più made in Italy possibile. E poi aiutare le imprese, quelle che sull’altare della guerriglia commerciale innescata da The Donald rischiano di pagare il prezzo più alto.
Nel tardo pomeriggio, quando è già sul volo che la ricondurrà a Roma, la presidente del Consiglio sente al telefono la numero 1 della Commissione europea per fare il punto. È il primo contatto tra le due dopo il patto scozzese, un confronto per capire «dove siamo e quali sono i margini» per continuare a trattare e limitare al massimo i danni. Innanzitutto, Meloni incassa la rassicurazione che con Trump sono stati contrattati dazi flat, ovvero inclusivi delle tariffe già esistenti. E tira un sospiro di sollievo, perché contrariamente sarebbe stato un bel guaio.
Intanto a Roma il ministro Tajani incontra le imprese, obiettivo «sapere da loro cosa serve per sostenerle» tenendo ferma la meta «dei 700 miliardi di export entro la fine del 2027». Ma anche l’Europa, torna a ribadire Meloni dall’Etiopia, deve fare la sua parte. Come? La strada a cui Roma guarda, riferiscono fonti autorevoli, passa da fondi europei a sostegno dei comparti più colpiti, «risorse che andrebbero ripartite per filiera e non per Stati membri». Mentre non sembrano esserci margini sulla possibilità di sospendere il Patto di stabilità, strada già battuta per il Covid, o di chiedere maggiore flessibilità come per le spese sulle armi. «Vorrebbe dire fare più debito e con i frugali non passerebbe mai. Oltretutto non abbiamo intenzione di scardinare i conti», assicurano le stesse fonti. Sgomberando dal tavolo anche ipotesi di manovre correttive. Quanto agli impegni che il governo intende assumere per spalleggiare le imprese, la partita si gioca su fondi Ue già incassati, a cui cambiare destinazione senza impattare sulla spesa pubblica. La fetta più grande della torta potrebbe arrivare dalla revisione del Pnrr, con ben 14 miliardi di euro da impiegare per limitare i danni del rialzo dei balzelli alle dogane. Undici miliardi sono poi rintracciabili nei fondi di coesione, mentre altri 7 potrebbero essere recuperati dal piano sociale per il clima. Per un “tesoretto” totale di 25 miliardi, escludendo dalla conta eventuali aiuti europei. In tutti e tre i casi – Pnrr, coesione e clima – servirebbe la mano tesa di Bruxelles, rispetto alla quale, però, Meloni pensa di poter trovare terreno fertile. E mentre Orbàn attacca con ferocia von der Leyen e la Francia critica duramente l’accordo, la premier torna a difenderlo. «Ho sempre pensato e continuo a pensare che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti.
IL “BUY AMERICAN”
Ma la preoccupazione c’è ed è palpabile, da un lato perché ora a Meloni spetta il lavoro, lungo e laborioso, di salvare i “gioielli” di famiglia. Dall’altra perché l’accordo scozzese nasconde una serie di potenziali mine su cui è facile saltare. Non solo per via del “buy american” su energia e armi sbandierato da Trump con cifre esorbitanti, ma anche per gli annunciati dazi zero su una serie di prodotti agroalimentari Usa. Con liberalizzazioni mirate difficili da mandar giù per un Paese che fa del “food and beverage” uno dei fiori all’occhiello del suo export. Intanto le opposizioni pungono, con Schlein che parla di «resa incondizionata» e il M5S che chiede alla premier di riferire al più presto in Aula per spiegare, l’affondo di Conte, la metamorfosi da sovranista a «portabandiera dell’America First».
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