di Pierfrancesco Malu
In esclusiva per Arena Digitale, pubblichiamo l’intervista a Maurizio Pimpinella, Presidente dell’Associazione Prestatori Servizi di Pagamento e della Fondazione Italian Digital Hub, oltre che esperto di digitale, innovazione, sul tema della sovranità tecnologica.
D: Presidente Pimpinella, il tema della sovranità digitale è sempre più al centro del dibattito europeo. Qual è oggi, secondo lei, lo stato dell’Italia e dell’Unione Europea su questo fronte?
R: L’Italia e l’Europa si trovano in una posizione di forte dipendenza tecnologica, in parte dovuta al fatto che non possiedono campioni digitali globali. Non abbiamo, infatti, colossi nei pagamenti digitali, non abbiamo big tech in grado di competere con Google, Apple, Amazon, Tencent o Huawei, e non abbiamo infrastrutture cloud proprietarie che siano davvero competitive a livello planetario, così come – salvo alcuni esempi virtuosi – non abbiamo in generale imprese capaci di condizionare le scelte economiche su larga scala. La stessa cosa vale per quanto riguarda le tecnologie. In vari settori strategici le tecnologie proprietarie europee sono marginali o non in grado di “giocare alla pari” con quelle statunitensi e cinesi, pur potendo contare su un mercato comune ben più ampio di quello americano. A questo si aggiunge l’aggravante che – addirittura – spesso dipendiamo anche da piattaforme e standard esteri. È una condizione “invalidante” per il nostro settore tecnologico che limita la nostra capacità di decidere autonomamente sul nostro futuro economico, tecnologico e democratico. E così capita che, ad esempio, i cloud su cui poggiano informazioni critiche come quelle della PA si collochino all’estero e che l’infrastruttura, gli applicativi e i programmi siano altrettanto stranieri. E il problema è che nel breve periodo non c’è alcuna alternativa a questa situazione.
D: Quali sono, secondo lei, le priorità operative su cui l’Italia e l’Europa devono agire per recuperare questo ritardo?
R: La vera leva strategica su cui esercitare la nostra sovranità è la gestione e valorizzazione dei dati. I dati sono la nuova materia prima: da essi dipende la competitività nei servizi pubblici, nel turismo, nella finanza, nella sanità, nell’energia e nelle telecomunicazioni. Se non governiamo i nostri dati, non governiamo nulla. Serve una strategia europea ed italiana che consideri il dato un asset nazionale, al pari dell’acqua o dell’energia. Un esempio concreto? Il turismo: l’Italia è uno dei paesi più visitati al mondo, ma la gestione delle informazioni digitali sui flussi turistici è in mano a piattaforme estere. Dovremmo invece dotarci di infrastrutture proprietarie capaci di raccogliere, elaborare e monetizzare questi dati. Se invece li incrociassimo con quelli delle carte di pagamento, dei trasporti e della pubblica amministrazione, potremmo costruire servizi predittivi e personalizzati. Questo vale anche per la finanza, le utilities, le TLC e i servizi pubblici.
La priorità è una sola quindi: recuperare il controllo sui dati. Il sottosegretario Butti in una recente intervista lo ha detto chiaramente: sovranità significa protezione dei dati, cloud europeo federato, investimento nel quantum computing. Sono d’accordo: il punto non è inseguire i big tech, ma costruire un modello europeo di gestione e valorizzazione dei dati.
Dobbiamo creare una filiera del dato italiana e europea, sicura, trasparente e interoperabile, fondata su cloud sovrano, IA responsabile e protocolli comuni. In Italia qualcosa si sta muovendo in tal senso sia per quanto riguarda piattaforme nazionali sia per quanto concerne la realizzazione di gruppi di imprese che intendono mettere a fattor comune esperienze, capacità e informazioni. La priorità però a questo punto è una sola: accelerare.
D: Quali strumenti concreti possono garantire questa autonomia digitale nei prossimi anni?
R: Dare una risposta certa a questa domanda non è semplice, ciò anche a causa della costante mutevolezza dell’ecosistema digitale. Di sicuro, ci sono alcuni contesti che richiedono particolare attenzione e tempestività di intervento. Tra questi ci sono:
- Rendere interoperabili e aperte le infrastrutture nazionali in un’ottica europea e su cloud sovrano.
- Un cloud europeo federato, come Gaia-X, ma realmente operativo e adottato da imprese e pubbliche amministrazioni. Non può restare un progetto di carta.
- Una strategia integrata del dato, che includa non solo la raccolta, ma anche la valorizzazione, l’elaborazione e la monetizzazione. Serve una regia europea e nazionale, con l’istituzione di un’autorità del dato strategico e la collaborazione di soggetti pubblici e di soggetti privati, perché il dato è un’infrastruttura quanto una rete autostradale o elettrica.
- Investire nel talento e nella formazione digitale, partendo già dalle scuole. È assurdo che nel 2025 solo il 54% degli italiani abbia competenze digitali di base (fonte: DESI 2024). Senza capitale umano formato, non c’è sovranità possibile.
- Offrire dei reali incentivi alle imprese (che siano start-up ma non solo) di innovare, ma anche di sbagliare. Il sistema dei crediti fiscali potrebbe essere un primo passo, così come quello di detassare del tutto gli investimenti in innovazione, formazione e sviluppo. È vero che anche le big tech sono partite come startup in un garage, ma il modello italiano di impresa è già di piccole dimensioni, dobbiamo quindi individuare gli strumenti che favoriscano la crescita e lo sviluppo.
Questi, ovviamente, sono solo degli esempi non esaustivi. Ma rendono l’idea dei campi in cui potremmo e dovremmo intervenire.
D: In un contesto dominato dai giganti globali, non rischiamo di essere comunque marginali?
R: Il rischio c’è, ma la risposta non è l’isolamento e comunque non possiamo lasciarci andare in attesa che qualcosa cambi per motivi esogeni. La soluzione è la cooperazione strategica europea orientata al rafforzamento della nostra autonomia. Oggi l’UE investe appena il 2% del suo PIL in R&S, contro il 3,5% degli USA e oltre il 4% della Corea del Sud. Questo gap va colmato. Serve un’Europa dei progetti, che scelga alcuni settori strategici – come l’intelligenza artificiale, la cybersicurezza e i pagamenti digitali – e ci investa massicciamente. Non possiamo limitarci a regolare le big tech: dobbiamo anche costruire alternative credibili.
D: A questo proposito, sorge spontanea la domanda: si parla spesso di sovranismo digitale. Alcuni però lo vedono come un rischio di chiusura. Cosa risponde?
R: È un equivoco. Il sovranismo digitale non è isolamento, ma capacità di decidere autonomamente in casa propria. È responsabilità, non autarchia. Nessuno dice che dobbiamo chiuderci (anche perché in un mondo globalizzato sarebbe non solo impossibile ma anche sciocco): ma non possiamo continuare a cedere a operatori esteri i dati delle nostre economie, delle nostre imprese, dei nostri cittadini, senza nemmeno averne fruito noi stessi.
Prendiamo le utilities: chi controlla i dati energetici di milioni di utenti può determinare strategie industriali. O la sanità: con l’intelligenza artificiale, i dati sanitari valgono più dell’oro. Eppure, molte soluzioni digitali ospedaliere sono su cloud extra-UE. Questo è inaccettabile. Ecco perché la sovranità sui dati è il vero cuore del sovranismo digitale: decidere chi, come e dove tratta informazioni strategiche.
D: Chi deve guidare questo processo? E quanto tempo abbiamo per agire?
R: Dobbiamo agire ora, o sarà troppo tardi. Il tempo dell’analisi è finito. Serve un governo industriale europeo del digitale, con task force dedicate, coordinate a livello nazionale, partnership pubblico-private che si avvalgono anche del supporto di associazioni e professionisti e strumenti finanziari adeguati. L’Italia può e deve essere protagonista. Abbiamo le competenze, il tessuto imprenditoriale e anche una certa visione.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato 40 miliardi al digitale, ma occorre spenderli bene: in cloud, IA, cybersicurezza, formazione.
Come ha detto il sottosegretario Butti, investire nelle tecnologie quantistiche può essere un punto di svolta, ma senza una governance unitaria del dato, rischiamo di perdere anche quel treno. L’Europa deve mettersi al centro della rivoluzione digitale non come utente, ma come architetto.
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