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ma i profitti delle aziende non sono un diritto acquisito


Il dibattito sull’accordo commerciale siglato in questi giorni tra Unione Europea e Stati Uniti, che introduce dazi del 15% su un ampio assortimento di merci europee importate negli USA, si muove lungo due direttrici principali.

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La prima riguarda il merito dell’accordo stesso: quali effetti reali produrrà e, soprattutto, quali siano le sue implicazioni strutturali, considerando che molti dettagli fondamentali non sono ancora noti. È un’intesa che evita un’escalation commerciale con Washington, oppure è una capitolazione? Al di là del giudizio immediato, ciò che emerge con forza è la natura sistemica del contesto in cui l’accordo si inserisce.
Con il secondo mandato di Donald Trump, assistiamo da mesi a una riscrittura radicale dell’ordine nato a Yalta: la logica del libero scambio tra alleati occidentali e la garanzia dell’ombrello difensivo statunitense stanno rapidamente sgretolandosi. Questo accordo sui dazi ne è solo l’ennesima manifestazione concreta, ulteriore tassello di un quadro geopolitico in profonda trasformazione. Mentre gli Stati Uniti ridefiniscono unilateralmente il loro ruolo e le loro alleanze, i paesi europei sono costretti a confrontarsi con un vuoto strategico che nessuno pare pronto a colmare — uno spaesamento in parte comprensibile, se si considera che gli attuali ordinamenti politici, costituzionali ed economici di paesi come Italia, Francia e Germania sono, in ultima analisi, figli diretti degli accordi post-bellici tra USA e URSS.

La seconda direttrice del dibattito riguarda invece la governance europea: un tema eterno, che si riaccende ogni volta che l’Unione assume decisioni ad alto impatto politico. La Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha pieni poteri in materia di commercio internazionale, ma resta aperta la questione se possieda davvero anche la piena legittimità politica per negoziare accordi di questa portata con Donald Trump. Le reazioni dei leader degli Stati membri sembrano suggerire che la Presidente della Commissione sia stata vista come un comodo parafulmine istituzionale: utile a gestire il negoziato, ma altrettanto utile da isolare politicamente una volta firmato l’accordo. Mentre a livello globale si discutono trasformazioni sistemiche, nel nostro piccolo segmento di mondo sembra essersi formato un plebiscito politico-culturale attorno alla necessità di aiutare le imprese colpite dai dazi. Ed è paradossalmente proprio questo uno dei temi che, invece di essere dato per scontato, meriterebbe di essere oggetto di una vera battaglia culturale. I sussidi alle imprese nascono, in genere, per motivi di politica industriale (spesso discutibili) o per rispondere a emergenze (come il Covid o lo shock energetico legato all’invasione russa in Ucraina).

Siamo davanti a un accordo negoziato e sottoscritto dall’Unione Europea: dove sarebbe l’emergenza? Dai retroscena sui giornali apprendiamo di un governo alla ricerca di almeno 25 miliardi, da prendere almeno in parte dal pozzo senza fondo denominato “PNRR”, mentre Confindustria lancia urla strazianti per la necessità immediata di aiuti. A sigillare il plebiscito culturale del sussidio come stile di vita arrivano poi le dichiarazioni dei leader dell’opposizione: Elly Schlein parla di “resa incondizionata dell’Europa” e Giuseppe Conte evoca addirittura “una Caporetto per la nostra economia”. Queste roboanti dichiarazioni non sono altro che il preambolo di una guerra parlamentare in cui i nostri eroi dell’opposizione chiederanno più sussidi, in quanto quelli proposti dal governo saranno ritenuti, inevitabilmente, pochi e insufficienti.

Per cui, prima di occuparci della fine di Yalta e della governance europea, ci preme ricordare a tutte le forze politiche che i profitti delle aziende non sono un diritto acquisito. Non c’è bisogno che il governo e le opposizioni difendano i margini delle aziende con i soldi dei contribuenti: si sforzino, invece, di creare le condizioni affinché si aprano nuovi mercati attraverso nuovi accordi commerciali — e forse ancor di più — si sforzino di liberare la concorrenza per dare il via a un processo di distruzione creatrice che manca al Paese da cinquant’anni. Mettiamo un po’ di liberismo – e di riformismo – nel nostro dibattito: i capitalisti e gli imprenditori non hanno mai bisogno di soldi!

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