“Attualmente tra Unione europea e Stati Uniti non è in vigore un vero e proprio accordo commerciale, ma un’intesa mirata a scongiurare l’imposizione unilaterale di dazi del 30% da parte degli Stati Uniti”. Esordisce così a Borsa&Finanza, Lucio Miranda, presidente e fondatore di ExportUSA, società di consulenza che da vent’anni segue l’avvio e lo sviluppo della presenza italiana negli Stati Uniti. In pratica, spiega Miranda, si è raggiunto un compromesso: un dazio flat del 15% su tutti i prodotti importati dall’Europa.
Dal punto di vista politico, “si tratta indubbiamente di una vittoria per l’amministrazione Trump, che riesce a generare un gettito stimato – in modo ancora grossolano – attorno ai 600 miliardi di euro all’anno”. Una cifra significativa, “anche se non sufficiente a colmare il deficit federale americano, ma comunque capace di rafforzare le finanze pubbliche e, soprattutto, l’immagine politica di chi ha condotto il negoziato”.
Miranda tiene a precisare che “non si tratta di un dazio aggiuntivo del 15%, ma di un’aliquota fissa e uniforme. Il termine corretto è appunto ‘flat 15%’, non ‘+15%’”. Così si è evitato lo scenario peggiore: “un’imposizione del 30% che avrebbe provocato un forte rallentamento delle importazioni europee negli Stati Uniti”. Con il 15% fisso, invece, è probabile che “le importazioni non calino in modo drastico, anche perché molti prodotti europei – specie italiani – mantengono una posizione competitiva per valore percepito e qualità”.
Dazi, punti di forza e criticità per le aziende italiane
Sul tema dei vantaggi e svantaggi, il numero uno di ExportUSA chiarisce: “Non si può parlare di un vero e proprio punto di forza quando si introduce un aumento dei dazi. Di fatto, si tratta di una misura che penalizza le esportazioni europee nel loro complesso”. Tuttavia, ammonisce, “come si dice in America, ‘il diavolo sta nei dettagli’: c’è ancora molto lavoro da fare, e questo rappresenta solo uno dei primi tasselli per arrivare a un risultato concreto”. Non bisogna quindi allarmarsi troppo o criticare le mosse europee: “c’è ancora margine perché la situazione evolva positivamente”.
Tra gli ostacoli concreti che frenano l’export verso gli Stati Uniti, Miranda segnala in particolare il calcolo corretto del dazio doganale. Spesso, spiega, “il problema nasce a monte, da una mancanza di strategia. Le imprese si affidano a procedure affrettate o a soggetti esterni – come spedizionieri o operatori logistici – che, pur lavorando in buona fede, non hanno come priorità il risparmio dell’azienda, ma piuttosto la velocità e la sicurezza operativa”. Di conseguenza, “per ridurre i rischi di contestazioni doganali, si tende a scegliere l’opzione più prudente: una classificazione del prodotto conservativa, con aliquote più alte”. Questo approccio “ha un costo reale: molte imprese finiscono per pagare più dazi di quanto in realtà sarebbero tenute a versare”.
Per questo motivo, il consiglio è “semplice, ma tutt’altro che banale: non limitatevi a delegare. Seguite da vicino il processo, verificate la congruità dei codici doganali e approfondite la classificazione dei vostri prodotti”. Miranda ricorda poi che “molti non sanno, ad esempio, che i codici doganali americani non sono identici a quelli europei. È vero che le prime quattro cifre del sistema armonizzato sono comuni, ma le successive – che fanno tutta la differenza – variano da Paese a Paese”. Ed è proprio lì “che si celano margini significativi di risparmio”. Una classificazione più accurata secondo la logica americana “può abbattere sensibilmente l’aliquota applicata. Ignorare queste differenze significa accettare passivamente un’imposizione più alta, spesso evitabile”. Studiare la tariffa doganale statunitense, conclude Miranda, “non è un costo, ma un investimento – e spesso uno dei più rapidamente ripagati”.
I consigli di ExportUSA
Lucio Miranda offre consigli concreti: “Il primo passo è sempre lo stesso: capire se esiste davvero un mercato per il proprio prodotto”. Serve “verificare se il prodotto si vende, a chi, e a che prezzo, confrontandolo con l’offerta dei concorrenti già presenti”. Esportare, secondo lui, “equivale a realizzare una grande ricerca di mercato sul campo: non teorica, ma concreta, fatta di ordini, feedback, margini e dati reali”. Solo così si può capire se il prodotto funziona negli Stati Uniti e a quali condizioni.
Quando i risultati sono positivi e i volumi crescono, è il momento di chiedersi: “ha senso aprire una sede commerciale oppure produrre direttamente negli Usa?” La risposta, avverte, “dipende dalla sostenibilità economica dell’operazione”. A questo punto è fondamentale “strutturare un business plan dettagliato: non solo per capire quanto capitale serve, ma anche per stimare le risorse operative necessarie (personale, logistica, fornitori locali, consulenza legale e fiscale, ecc.)”. Qui cambia la mentalità: “da esportatore a imprenditore con una strategia industriale per il mercato americano”.
Il numero uno di ExportUSA sottolinea che idealmente dovrebbero accadere due cose: “Un cambio di mentalità: l’impresa inizia a pensarsi come attore ‘domestico’ sul mercato Usa, con una presenza stabile, locale e riconosciuta”. E poi “una presa di posizione strategica: aprire una società americana non è solo un fatto operativo, ma anche una leva per diventare più competitivi – sui tempi di consegna, sul prezzo finale, sulla gestione fiscale e sull’accesso alla distribuzione”. Infine, Miranda presenta una soluzione innovativa sviluppata da ExportUSA: “Abbiamo sviluppato una soluzione di ingegneria doganale che consente alle aziende di ridurre in modo significativo e conforme i dazi all’importazione negli Usa, grazie a un’analisi mirata su pratiche commerciali e classificazione doganale”. I risultati, assicura, “sono concreti fin dal primo anno, spesso nell’ordine di centinaia di migliaia di euro”.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link