L’imprenditore del pharma: «Apparentemente, ci si assesterà su un dazio del 15%, ma bisognerà valutare quali farmaci godranno di esenzioni,. Trasferire le aziende? Non è così facile»
«L’Europa mi ricorda un nobile che abita in una casa antica e meravigliosa, ma non si accorge che fuori il mondo sta cambiando e che bisogna lavorare per mantenere il privilegio», dice Sergio Dompé, numero uno dell’omonima azienda farmaceutica, uno dei principali gruppi di un settore che per l’Italia vale 10 miliardi di esportazioni negli Stati Uniti e per l’intera Ue 119 miliardi. «Spero che i dazi diano uno scossone perché sarà l’innovazione a determinare se l’Ue potrà mantenere un ruolo di potenza o si dovrà accontentare di una posizione sussidiaria».
I dazi sui farmaci sono fra i punti meno chiari dell’accordo commerciale fra Usa e Ue: si è fatto un’idea di quale sarà il punto di caduta?
«Apparentemente, ci si assesterà su un dazio del 15%; restano però due incognite dirimenti. Da un lato, bisognerà valutare quali farmaci godranno di esenzioni, di tariffe zero. Dall’altro, pende ancora l’indagine commerciale della Casa Bianca sul settore che potrebbe stravolgere il quadro».
Ammesso che rimanga al 15%, quale è il suo giudizio?
«Positivo alla luce delle condizioni di partenza, ma per dare un giudizio definitivo bisognerà attendere i dettagli. I dazi fanno in ogni caso sempre male: sono una tassa sul nostro lavoro e rallentano non solo lo scambio di merci ma anche di conoscenze».
Chi pagherà questa tassa?
«L’impatto sarà pesante per un Paese esportatore come l’Italia che vende all’estero il 72% della sua produzione farmaceutica. Per fortuna, però, l’urto sarà attutito dagli aumenti di produttività che l’industria farmaceutica italiana ha ottenuto negli ultimi anni grazie agli investimenti su macchinari, manodopera qualificata e tecnologia».
Non ci saranno danni per le imprese o aggravi per i pazienti americani?
«Il dazio sarà trasferito sui consumatori laddove non sia possibile assorbirlo in altro modo. Questo vale specialmente per i farmaci generici o per cui il brevetto è scaduto, che hanno margini di profitto molto risicati. Non a caso, questi prodotti potrebbero usufruire di un’esenzione. Sul fronte opposto, però, aumenti di prezzi sono possibili anche per farmaci che hanno poca o nulla concorrenza».
Trump lamenta che gli americani già paghino il triplo i farmaci rispetto all’Europa: ha ragione?
«Non ha tutti i torti: i prezzi dei farmaci nella Ue sono fra i più bassi al mondo a causa della pressione regolatoria. Il governo americano ha perciò il sospetto che i margini generati dalle aziende farmaceutiche negli Stati Uniti finiscano per finanziare le loro attività produttive e di ricerca nei Paesi europei. Che, a volte, fanno anche concorrenza all’America sul piano fiscale».
Che cosa intende?
«I 119 miliardi di export farmaceutico europeo negli Usa non fanno capo solo alle aziende europee, ma anche a molti gruppi americani che hanno spostato la produzione in Irlanda, attratti da generosi incentivi fiscali. Il rimpatrio di queste società potrebbe, in fondo, essere uno degli obiettivi dei dazi americani».
I dazi spingeranno anche le aziende europee a spostare la produzione negli Usa?
«Non è così facile spostare uno stabilimento. La progettazione richiede fino a un anno, poi servono sei mesi per validare il progetto e due anni o più per esser pronti all’inaugurazione. Prima, però, l’impianto deve superare le ispezioni che arrivano a esaminare persino migliaia di saldature dei tubi. E non è finita».
Perché?
«Occorre trovare macchinari e manodopera: produrre farmaci richiede la collaborazione di professionisti con centinaia di specializzazioni diverse. Non è una filiera che si costruisce in pochi anni».
Quindi l’Ue può dormire sonni tranquilli sui farmaci?
«Al contrario, i dazi devono dare la sveglia all’Europa che ha perso molta competitività. Se 30 anni fa un brevetto farmaceutico su tre era di matrice europea, oggi siamo a uno su sei. E l’Asia, Cina e India in testa, hanno fatto passi da gigante in questo settore».
Cosa suggerisce di fare?
«L’Ue ha un solo regolatore in materia farmaceutica, ma per ottenere i rimborsi le aziende devono rivolgersi ai singoli Paesi che hanno leggi, procedure e tempi diversi. È solo un esempio che dimostra l’incapacità dell’Europa di fare sistema: la pandemia sembrava aver segnato una svolta ma poi, finita l’emergenza, si è tornati alla frammentazione precedente dove ogni Paese pensa per sé. Mario Draghi ha ben spiegato quali sono i freni alla competitività europea, ora urgono proposte per eliminarli».
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