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L’IMPATTO DEI DAZI SULL’ITALIA/ “Dall’Asean al Mercosur e cambio dell’euro, le imprese cercano alternative”


Indagine Promos Italia: oltre metà degli imprenditori teme difficoltà per l’export dopo i dazi USA al 15%. Ma si può recuperare su molti altri mercati.

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Per il 50,5% delle aziende l’accordo USA-UE sui dazi potrebbe creare difficoltà all’export italiano in America. Per un altro 20,6% l’impatto sarà limitato. Le 150 aziende interpellate da Promos, agenzia delle Camere di commercio che si occupa dell’internazionalizzazione delle imprese, non vedono di buon occhio l’operato della UE: per il 40,2% con l’intesa Bruxelles non dà particolare dimostrazione di supporto alle aziende, mentre il 37,1% ritiene che l’accordo non rafforzi per niente la fiducia nelle istituzioni europee. Le imprese, però, spiega Giovanni Rossi, direttore generale di Promos Italia, non si fermano al giudizio politico, ma cercano di reagire.



Uno dei modi è supplire al calo del mercato USA cercando di entrare in altri mercati, da quelli asiatici al Mercosur. Molto dipenderà, però, anche dalle politiche monetarie messe in atto per difendersi dalla svalutazione del dollaro. Il vero impatto dell’intesa sui dazi, comunque, si capirà quando saranno definiti tutti i dettagli: per i singoli settori potrebbero cambiare molte cose.



Oltre il 70% delle aziende dà un giudizio più o meno negativo sull’accordo con gli Stati Uniti per i dazi. Quanto sono preoccupate realmente per i loro affari?

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Non credo che ci si potesse aspettare qualcosa di diverso dall’intesa raggiunta. In caso di contrapposizione le cose potevano andare peggio. Bisogna ricordare, comunque, che il quadro non sarà chiaro fino a quando non verranno definite le normative di dettaglio sulle diverse categorie merceologiche. Sui farmaci, per esempio, una parte importante dell’export italiano, ci dovrebbe essere un trattamento più favorevole. Il punto vero è che siamo di fronte a un tradizionale partner commerciale che ha deciso di riposizionarsi. Gli imprenditori, al di là delle preoccupazioni e del disappunto, ora si chiedono razionalmente cosa fare: bisogna impostare delle strategie alternative.



Quanto diventa più difficile il mercato americano?

Dipende dalle categorie merceologiche. Ci sono consumatori alto spendenti che vogliono il parmigiano reggiano e che rifiutano tutto ciò che è Italian Sounding, produzione locale. Riguardo al prezzo, il 15%, una parte si scaricherà nell’inflazione, un’altra nella catena e sugli importatori, un’altra ancora bisognerà digerirla come mancato profitto. A questo, però, bisogna aggiungere un altro 15% il cambio. Il che ci fa capire che ora molto dipenderà anche da come si muoveranno le banche centrali. In questo quadro c’è una nota positiva: la primissima reazione dei mercati è stata un rialzo del dollaro nel giorno dell’annuncio dell’accordo. Se questo permettesse al dollaro di recuperare il 12-13% di deprezzamento nei confronti della moneta europea, le cose cambierebbero.

Quindi gli imprenditori cosa devono fare?

Bisognerà cominciare a pensare a un mondo più multilaterale anche nel commercio. Gli Stati Uniti sono un mercato d’elezione, oggi però questo è meno vero: il tema fondamentale è che occorre differenziare anche in relazione al posizionamento geografico del nostro commercio. Il sistema italiano si sta già muovendo in questa direzione: il piano del Ministero degli Affari esteri sul commercio internazionale pubblicato a marzo parla di diversificazione dei mercati di sbocco. L’obiettivo è di arrivare a 700 miliardi di export.

Quali sono questi mercati alternativi?

L’ASEAN, quindi il Sud-Est asiatico, l’India, che ha quasi 800 milioni di consumatori, il Mercosur, soprattutto Brasile e Argentina, con 300 milioni di consumatori, area con la quale il 6 dicembre la UE ha firmato l’intesa preliminare per un accordo che dovrebbe essere ratificato nei primi mesi del 2026. Poi c’è la parte MENA (Middle East and North Africa), in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Penso anche ad altri mercati come quello del Giappone.

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Bastano per recuperare quanto si perde con i dazi USA?

L’export italiano è 630 miliardi, quello degli Stati Uniti intorno ai 65. Se anche perdessimo, ma non succederà, il 30% dell’export, sono 20 miliardi. Eppure c’è il Mercosur, 300 milioni di consumatori, in cui l’export tra Brasile e Argentina vale solo 20 miliardi, in Giappone per ora è a 8 miliardi, per non parlare di Arabia Saudita ed Emirati, intorno ai 15 miliardi.

Insomma, il mondo è grande, e dopo il disappunto iniziale per i dazi USA si possono esplorare altre opportunità. Certo, ci sono posti per raggiungere i quali bisogna affrontare viaggi lunghi e avere a che fare con culture diverse. Ma se c’è qualcuno che può fare questo lavoro sono gli imprenditori italiani. D’altra parte quando si va negli USA si capisce che c’è una parte importante del Paese che ha maturato una specie di risentimento, non cattivo, nei confronti degli europei, risentimento che Trump sta rappresentando.

Secondo gli imprenditori interpellati nel vostro sondaggio, l’accordo sui dazi impatta sulle loro aziende in termini di competitività (20,6%), burocrazia (34%), riorganizzazione della supply (19,6%) chain. Una situazione in cui saranno sollecitate a crescere?

Non credo che ci sia un tema di competitività dei prodotti, perché noi i prodotti li abbiamo. E le procedure negli Stati Uniti resteranno le stesse, semplicemente si pagheranno di più. Il tema è l’approccio ai nuovi mercati: ci sono normative diverse, la preoccupazione per i pagamenti. Occorre avere una capacità di resilienza per un certo periodo, per un posizionamento significativo occorrono due o tre anni.

Uno degli esiti del sondaggio è comunque che l’operato della UE non viene visto con favore. Rimane un giudizio negativo su Bruxelles e la Von der Leyen?

Siamo di fronte a un cambiamento per cui è riduttivo fare un ragionamento sui leader. La comunità europea rispetto agli Stati Uniti ha oggettivamente minore capacità negoziale, perché da una parte c’è un uomo con dietro un popolo che l’ha appena eletto, dall’altra parte una governance frammentata e tante opinioni diverse su come comportarsi nel negoziato. Sinceramente penso che una guerra commerciale probabilmente faccia più danni di un accordo fatto male. Ci fosse stato qualcun altro, sempre così finiva. E non scordiamoci una cosa: degli oltre 600 miliardi di export italiani, due terzi sono intracomunitari.

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Il 57,7% degli imprenditori ritiene che il cambio euro-dollaro avrà un impatto negativo sull’export. Che tipo di sostegno dovrebbero avere a livello europeo e nazionale per affrontare questo momento?

Le istituzioni, e in particolare quelle italiane, devono fare quel labor limae che riguardo ai dazi può fare tutta la differenza del mondo. I tre grandi ambiti in cui gli italiani esportano sono farmaceutici, macchinari industriali, quindi meccanica di precisione, e agri-food. Se in tutti e tre, o in qualcuno dei tre, nella micro-negoziazione si riescono a strappare condizioni più favorevoli, questa fase della trattativa potrà fare la differenza.

Gli imprenditori, inoltre, devono fare squadra e chiedere alle istituzioni che il sistema Italia si muova coerentemente per perseguire la politica della diversificazione dei mercati, per essere aiutati con servizi e contenuti nella loro conquista. Dopodiché bisogna mettere in conto uno shock, perché per un paio d’anni si soffrirà. Ma si può soffrire dando la colpa a questo o a quello oppure reagire e trovare delle soluzioni.

(Paolo Rossetti) 

 

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