Da quando siede a Palazzo Chigi, la più grande fatica di Giorgia Meloni non è tanto governare. È trovare, ogni volta, una giustificazione politicamente spendibile per le incoerenze del suo governo. Ai tempi dell’opposizione aveva promesso che avrebbe tagliato le accise sui carburanti: oggi sono ancora lì, e in alcuni casi persino aumentate, così come aveva promesso il blocco navale per impedire l’ingresso di nuovi migranti, ma al governo ha varato un decreto flussi da mezzo milione di ingressi regolari in tre anni.
Ora siamo curiosi di sapere quale formula troverà la presidente del Consiglio per giustificare l’ennesima giravolta strategica: l’adesione dell’Italia al nuovo strumento Safe (Security Action for Europe) dell’Unione europea. Parliamo del fondo da centocinquanta miliardi istituito dall’Ue per finanziare appalti comuni nel settore della difesa.
Nella notte del 30 luglio, l’Italia ha chiesto di riservarsi una quota fino a quattordici miliardi da impiegare nei prossimi cinque anni per rafforzare la capacità produttiva militare, anche in vista dell’impegno a portare le spese per la difesa fino al cinque per cento del prodotto interno lordo, sottoscritto da Meloni al vertice Nato dell’Aja.
Il prestito non è a fondo perduto. È un debito, contratto con l’Unione europea, che andrà restituito. Certo, le condizioni sono favorevoli – tasso agevolato, rate su quarantacinque anni, primo rimborso dopo dieci – ma vincolate. Quindi i fondi saranno concessi solo sulla base di piani industriali approvati dalla Commissione europea, e potranno essere utilizzati esclusivamente per appalti congiunti tra almeno due Stati membri (con l’Ucraina o con un Paese Efta-See), destinati a prodotti e sistemi di difesa ben definiti.
Quindi, ricapitolando: Safe è un meccanismo straordinario dell’Unione europea che concede agli Stati membri prestiti agevolati, subordinati alla presentazione di piani industriali dettagliati, da restituire in decenni. In tutto e per tutto, un’impostazione analoga a quella del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), che però il governo Meloni continua a rifiutare, nonostante la possibilità di utilizzarlo per rafforzare la spesa sanitaria. Un rifiuto che, peraltro, blocca l’attivazione del Mes per tutti gli altri Paesi europei.
Perché il Safe sì e il Mes no? È solo una questione di destinazione, oppure la coerenza, anche questa volta, è un dettaglio sacrificabile? Il governo denuncia il Mes come una minaccia alla sovranità nazionale, salvo poi aderire con entusiasmo a uno strumento che funziona secondo le stesse logiche: prestiti europei, con vincoli europei, per obiettivi europei.
Raccontare l’Europa come un problema quando impone vincoli, e come una risorsa quando eroga fondi è una strategia collaudata. Meloni vorrebbe ripeterla anche per aiutare le imprese italiane che esportano negli Stati Uniti dopo l’intesa tra Washington e Bruxelles che fissa nuovi dazi al quindici per cento su una serie di importazioni strategiche europee (e italiane).
Il governo ha annunciato la creazione di una task force alla Farnesina per affrontare l’impatto su settori chiave del Made in Italy, in particolare il vino, la meccanica di precisione e la farmaceutica. Tajani ha chiesto flessibilità sugli aiuti di Stato e ha indicato l’intenzione di destinare fino a venticinque miliardi – attingendo anche al piano nazionale di ripresa e resilienza e ai fondi di coesione – per sostenere le imprese più colpite. Il piano è in fase di valutazione da parte della Commissione.
Ma qui non è un problema di incoerenza, quanto di analfabetismo economico. Sì, perché molti dei prodotti colpiti dai dazi sono beni a bassa elasticità della domanda – difficili da sostituire, legati a marchi, qualità, tecnologie. In sostanza: alla fine i dazi di Trump li pagheranno i consumatori americani, perché se un prodotto importato costa di più, e non esistono alternative valide prodotte localmente, quel costo si scarica sul prezzo finale al consumatore. Le imprese americane che li acquistano pagano di più, e a loro volta trasferiscono l’aumento ai clienti. Alla fine della catena, sono i cittadini statunitensi a sostenere il prezzo del protezionismo.
Non c’è dunque alcun motivo per cui debbano metterci altri soldi gli italiani ed europei. Le compensazioni massicce ventilate dal governo rischiano di essere non solo inutili, ma anche distorsive e inefficaci, pagate con risorse comuni che potrebbero essere usate altrove, per problemi veri, come la situazione in cui versa il sistema sanitario nazionale.
Come ogni governo, anche questo sarà giudicato non solo per le scelte che compie, ma per il modo in cui le spiega. E per quanto a lungo riuscirà a sostenere due narrazioni divergenti: l’Europa come problema e l’Europa come risorsa.
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