Non sono ancora chiari gli effetti dell’atto di sottomissione europea agli Stati Uniti consumatosi nel golf club scozzese di proprietà di Donald Trump ma, intanto, partono le stime delle possibili conseguenze sull’economia italiana e le, immancabili, richieste di sostegno da parte delle imprese.
La stima, molto artificiale, è vicina ai 23 miliardi di euro e si parla di migliaia di posti di lavoro in pericolo, per cui Confindustria e altre associazioni di categoria hanno subito indirizzato al governo un grido di dolore. Il presidente degli industriali, Emanuele Orsini, ha persino sostenuto la necessità di una sorta di patto con i sindacati, che in realtà sembrano aver accolto l’ipotesi con un certo favore, per trovare risorse pubbliche a difesa delle “imprese e dei lavoratori italiani”. Dunque, siamo di fronte all’ennesima domanda di sussidi che, naturalmente, verranno pagati dalla fiscalità generale: o meglio da quelli che pagano le tasse, cioè poco meno del 40% del totale dei contribuenti.
Ora, questa richiesta merita una considerazione volutamente polemica. Ma i sussidi, pagati dalla collettività che paga (e non è un refuso), devono servire perché le imprese italiane che vendono negli Stati Uniti possano continuare a farci affari? In altre parole, di fronte ai dazi di Trump, le imprese che perderebbero “competitività” e licenzierebbero, magari grazie alle normative “semplificatorie” partorite negli ultimi anni, otterrebbero dallo Stato, e quindi dalla collettività che paga le imposte, le risorse per pagare i dazi Usa senza dover ridurre i profitti, perché altrimenti procederebbero a licenziare?
Per essere ancora più chiari: Trump impone i dazi e le imprese che per anni hanno fatto la loro “strategia” industriale creandosi una dipendenza dal mercato estero, con il pieno supporto dei governi succedutisi in carica, senza grandi distinzioni, ora chiedono allo Stato le risorse per continuare questa pratica, dimostratasi fallimentare?
Lo Stato, quindi la collettività, paga per le imprese i dazi di Trump e continua a rinunciare, come ha fatto per anni, a immaginare politiche industriali che non rendano il sistema produttivo italiano ricattabile dagli Stati Uniti in primis e che non si affidino solo al contenimento del costo del lavoro? È questo il modello delle associazioni di categoria avallato dai sindacati? Mi auguro proprio di no, anche perché, intanto, le “imprese” fanno grandi affari.
Prendiamo il caso di Exor degli Elkann: ha venduto, in un colpo solo, tutta Iveco, compresa la divisione Iveco defense, spacchettando l’operazione in due con la parte “civile” ceduta a Tata, attraverso Opa, per 3,8 miliardi di euro, e la parte militare a Leonardo per 1,7 miliardi. In pratica 5,5 miliardi di euro che vanno direttamente in tasca ai grandi azionisti di Iveco: che sono Exor, appunto, che ne detiene il 27%, Norges bank e il fondo americano Arcadia, dove sono presenti le immancabili Big Three, ovvero i grandi fondi statunitensi BlackRock, Vanguard e State Street.
Dunque, di fronte ai dazi, per cui Confindustria e accoliti chiedono il solito “grande patto” con soldi pubblici, Elkann e soci guadagnano 5,5 miliardi di euro liberandosi di una società che ha quasi 10mila dipendenti solo in Italia. Ma c’è di più: Iveco defense, che ha commesse dallo Stato per una ventina di miliardi, passa nelle mani di Leonardo -dove sono ben presenti i grandi fondi Usa- e accentua la sua vocazione militare anche per effetto della joint venture tra Leonardo e Baykar, la società turca, di proprietà del re dei droni Selcuk Bayraktar.
Di nuovo, in sintesi, “l’imprenditoria” italiana vende per fare soldi, che reinvestirà in ambito finanziario, e cede un pezzo della sua proprietà a imprese che vivono di armi. Anche in questo caso con il consenso dei sindacati perché le tre sigle congiunte dell’industria meccanica hanno salutato con grande favore la formazione del cartello Leonardo/Baycar, Iveco defense. Torna in mente la Sagra di Giarabub nel 1942: “Colonnello non voglio il pane, dammi il piombo per il mio moschetto”.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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