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Diritto al lavoro, formazione e politiche attive nella doppia transizione


In un momento storico segnato da trasformazioni radicali, la transizione digitale e quella ecologica sono state al centro del convegno dal titolo Diritto al lavoro, formazione e politiche attive nella doppia transizione, che si è svolto nei giorni scorsi nell’aula magna di Villa Cerami, sede del Dipartimento di Giurisprudenza.

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L’incontro – alla presenza di esperti, accademici, rappresentanti istituzionali e operatori del settore – ha rappresentato un’occasione cruciale per mettere a fuoco le grandi sfide che attendono il mercato del lavoro italiano e ha offerto una riflessione ad ampio raggio sull’evoluzione delle politiche attive, sulla centralità della formazione continua e sulla necessità di costruire un sistema occupazionale più equo, reattivo e strutturato.

L’obiettivo principale del convegno è stato quello di indagare come il diritto al lavoro e alla formazione possano essere garantiti in modo efficace nell’era della doppia transizione, e come le politiche pubbliche possano anticipare, piuttosto che inseguire, i cambiamenti in atto nel tessuto produttivo e sociale. Un’attenzione particolare è stata riservata alla necessità di rafforzare gli strumenti di accompagnamento alla transizione professionale, puntando su formazione permanente, governance multilivello, coinvolgimento delle imprese e valorizzazione delle competenze.

Tra i temi affrontati il ruolo strategico del Programma GOL – Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori e del Pnrr nella costruzione di politiche attive più solide; la necessità di prevenire la perdita del lavoro piuttosto che gestirla a posteriori; il legame tra formazione e occupabilità, soprattutto nel Mezzogiorno; le disuguaglianze di genere e territoriali; la trasparenza del mercato del lavoro; l’urgenza di ripensare gli ammortizzatori sociali alla luce di nuovi paradigmi di inclusione e cittadinanza.

In un contesto segnato da instabilità occupazionale e frammentazione normativa, il convegno ha voluto lanciare un messaggio chiaro: per affrontare le sfide della modernità servono politiche attive non più emergenziali ma strutturali, capaci di integrare diritto, economia, formazione e giustizia sociale in una visione unitaria e di lungo periodo.

Governance multilivello e semplificazione amministrativa per le aree interne

Sul tema si è soffermato il prof. Salvatore Zappalà, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, che ha evidenziato come «solo attraverso un coordinamento efficiente e sinergico tra Stato, Regioni e amministrazioni locali si possono evitare inefficienze e sovrapposizioni, assicurando interventi coerenti e adeguati alle diverse realtà territoriali».

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«La partecipazione dal basso riveste un ruolo imprescindibile – ha aggiunto -, coinvolgere le comunità locali significa intercettare bisogni concreti e orientare in modo più efficace le risorse e i progetti. Occorre, inoltre, procedure burocratiche, spesso eccessivamente complesse e rallentanti, che costituiscono un vero e proprio freno allo sviluppo delle aree marginali».

Il docente ha anche proposto una revisione normativa capace di alleggerire gli iter autorizzativi, mantenendo però alta l’attenzione sulla trasparenza e sul rispetto della legalità. «Solo così l’azione amministrativa può diventare più agile e tempestiva», ha detto.

«È fondamentale un approccio integrato che combini interventi in settori diversi come infrastrutture, servizi, sviluppo economico, ambiente e coesione sociale per generare effetti moltiplicatori e sinergie virtuose», ha aggiunto.

E, inoltre, ha richiamato l’attenzione sul ruolo strategico della normativa europea e dei fondi strutturali, sottolineando «la necessità di una maggiore flessibilità delle regole comunitarie per adattare efficacemente le politiche alle esigenze specifiche delle aree interne, spesso caratterizzate da condizioni di marginalità e complessità».

Il diritto alla formazione come leva per il rilancio del Sud

Anna Alaimo, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Catania, ha proposto una riflessione puntuale e articolata sul mercato del lavoro nelle regioni meridionali, inserendo il proprio progetto in un quadro più ampio di iniziative di ricerca nazionali. Al centro del suo discorso il tema cruciale della formazione, intesa non solo come diritto tradizionale legato al contratto di lavoro, ma come processo continuo e permanente, in linea con le più recenti politiche europee sul lifelong learning.

La docente ha ricordato come «il suo progetto, che coinvolge principalmente università del Sud Italia, si inserisca in un contesto più ampio di ricerca, collegandosi idealmente ad un altro Progetto di Interesse Nazionale focalizzato sulla trasparenza nei mercati del lavoro e che coinvolge istituzioni del Nord». Questo confronto tra realtà territoriali differenti mette in luce l’importanza di considerare le specificità locali quando si affrontano temi di così grande rilevanza sociale.

«Nel corso degli incontri già svolti, da Pescara a Napoli, il progetto ha approfondito due prospettive fondamentali – ha spiegato -. La formazione come diritto contrattuale e la sua evoluzione verso un concetto di apprendimento permanente, cruciale per adattarsi ai continui cambiamenti tecnologici e di mercato. Particolare attenzione è stata dedicata all’analisi delle politiche europee, inclusa l’influenza dell’intelligenza artificiale nella gestione dei servizi per l’impiego, tema di grande attualità e ricaduta pratica».

Nel corso del convegno è stata proposta la fotografia delle inefficienze strutturali del mercato del lavoro nel Sud, caratterizzato da alta disoccupazione e politiche passive, spesso assistenziali. Ma anche dell’integrazione tra politiche attive e formazione, un binomio indispensabile per la transizione verde e digitale e per garantire una reale “continuità occupazionale”. Secondo la prof.ssa Alaimo, infatti, «le politiche passive come la Cassa Integrazione non possono essere sufficienti da sole, ma devono essere accompagnate da strumenti di riqualificazione e attivazione professionale».

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Nel suo intervento ha rimarcato «una inversione di tendenza nel mercato del lavoro meridionale, con un aumento dell’occupazione in alcune aree, in particolare in Sicilia, attribuibile a stimoli specifici come incentivi edilizi». «Tuttavia, questo dato positivo va analizzato con prudenza e approfondito da ulteriori studi», ha aggiunto.

Un momento dei lavori

Una critica radicale alle politiche attive del lavoro

Il tema è stato approfondito da Antonio Lo Faro, ordinario di Diritto del lavoro all’Università, che ha adottato un approccio teorico-critico per mettere in discussione la retorica dominante sulle politiche attive del lavoro. Il docente ha invitato a superare un approccio ingenuo e fideistico, denunciando la “feticizzazione” delle politiche attive, ormai diventate «simboli vuoti e rituali più che strumenti efficaci di cambiamento».

Lo Faro ha contestato la tradizionale dicotomia tra politiche attive e passive, spesso presentate come opposti ideali. «Questa contrapposizione è frutto di un’ideologia, non di dati empirici: infatti, gli ammortizzatori sociali “passivi” non sono di per sé inefficaci, mentre le politiche attive sono spesso idealizzate ma incapaci di risolvere davvero i problemi strutturali del mercato del lavoro, soprattutto al Sud», ha spiegato.

Un punto chiave della sua analisi ha riguardato il divario fra discorsi e realtà. «Da due decenni – ha detto – le politiche attive sono celebrate come la panacea di tutti i mali, ma i risultati sono deludenti. Il programma Garanzia Occupabilità Lavoratori è emblematico: è ambizioso nelle carte ma insufficiente nella pratica, a causa di una governance frammentata e inefficiente che coinvolge enti come Inps, Cpi, Regioni e Anpal, tutti spesso in conflitto e senza un coordinamento efficace».

E, inoltre, ha criticato anche il mondo del diritto del lavoro “appiattito” sul linguaggio burocratico, perdendo la capacità critica e trasformativa. «La retorica dell’attivazione individuale finisce per colpevolizzare i lavoratori, scaricando su di loro la responsabilità di fallimenti strutturali del mercato del lavoro, in un’ottica neoliberista che sposta il peso dallo Stato al singolo», ha aggiunto.

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In chiusura ha sottolineato «la superficialità con cui si affrontano le transizioni verde e digitale, spesso ridotte a slogan privi di strategie formative pubbliche concrete, stabili e accessibili». «Servirebbe un piano straordinario di formazione pubblica, universale e gratuita, svincolato dall’immediata “occupabilità”, per restituire centralità allo Stato e riaffermare la cittadinanza attiva», ha detto.

Il lavoro come lente per leggere le disuguaglianze territoriali in Italia

Il sociologo Maurizio Avola dell’ateneo catanese, nel suo intervento, ha presentato una fotografia ricca di dati e riflessioni che collocano le disuguaglianze territoriali italiane all’interno di un quadro europeo e globale. Partendo dalla constatazione che, a livello mondiale, le disuguaglianze fra Paesi tendono a diminuire, Avola ha evidenziato come «in Italia crescano invece le disparità interne, in particolare fra Nord e Sud».

«L’Italia presenta la maggiore eterogeneità di livelli di sviluppo locale in Europa, con il Mezzogiorno che fatica a colmare storicamente il divario occupazionale rispetto al Nord – ha detto -. Un dato emblematico è la disoccupazione di lunga durata al Sud, che riguarda più dei due terzi dei disoccupati meridionali, con un forte rischio di esclusione permanente dal mercato del lavoro».

Oltre al tradizionale dualismo Nord-Sud, Avola ha evidenziato un ulteriore divario tra aree centrali e aree marginali, soprattutto nelle regioni meridionali. «Le aree interne, periferiche o ultra-periferiche si caratterizzano per prestazioni occupazionali peggiori, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi, con una marcata dequalificazione e una crescente polarizzazione del mercato del lavoro», ha spiegato.

Il sociologo ha presentato una classificazione delle province italiane in base alla marginalità territoriale, dimostrando che «le zone più marginali presentano livelli di occupazione più bassi e una maggiore incidenza di lavori a basso prestigio, configurando una “doppia perifericità” per il Sud interno e periferico».

Nel suo discorso, Avola ha sottolineato come «queste disuguaglianze non siano semplicemente il risultato di un “ritardo” storico, ma il prodotto di scelte politiche, economiche e istituzionali che si sono tradotte in sistemi economici e sociali fragili e poco capaci di innovarsi». «Per questo motivo ha auspicato una maggiore disponibilità di dati micro-territoriali e un impegno più deciso per politiche attive mirate e capaci di affrontare le specificità locali», ha detto.

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Aree interne, genere e politiche territoriali, un appello a ripensare il Mezzogiorno

Luisa Corazza, ordinario di Economia all’Università del Molise, ha ripreso il tema delle aree interne e marginalizzate, cruciale per il Mezzogiorno e per molte realtà rurali italiane. Un’analisi critica, ma anche propositiva delle politiche di coesione territoriale e del lavoro, con un’attenzione particolare al ruolo delle donne e alla dimensione di genere.

«Il Pnrr pur rappresentando uno strumento cruciale per la ripresa economica post-pandemia, non considera adeguatamente le specificità territoriali, lasciando spesso le aree interne del Sud ai margini delle strategie nazionali – ha detto -. La mancata integrazione tra politiche del lavoro e politiche di coesione rischia così di aggravare ulteriormente le disuguaglianze territoriali».

E sulla dimensione di genere, spesso trascurata nelle politiche territoriali, Corazza ha sottolineato «la necessità di far diventare la certificazione della qualità di genere nelle imprese una competenza trasversale, affinché le politiche non si limitino a sostenere le donne come beneficiarie passive, ma ne valorizzino il ruolo di protagoniste attive dello sviluppo locale».

La docente ha evidenziato alcuni esempi virtuosi in Europa: dal programma France Ruralité in Francia, alla mobilitazione politica della España Vaciada, fino alle politiche innovative di Madeira in Portogallo e della Svezia nell’erogazione dei servizi pubblici in territori remoti. «Questi modelli dimostrano l’importanza di politiche territoriali radicate, flessibili e inclusive, capaci di rispondere alle diverse esigenze locali», ha detto.

Ha offerto anche uno sguardo innovativo sul tema migratorio, proponendo di considerare «i migranti non solo come un’emergenza, ma come una risorsa strategica per il ripopolamento delle aree interne e per l’inserimento di nuove competenze nei tessuti produttivi locali». «Questo approccio inclusivo si presenta come una via necessaria per rilanciare territori a rischio spopolamento e declino», ha aggiunto.

«Le politiche per le aree interne devono essere ripensate in chiave integrata, territoriale e di genere, aprendosi a esperienze europee innovative e valorizzando il contributo di donne e migranti per costruire uno sviluppo locale più equo e sostenibile», ha detto.

La stagione di Gol e del Pnrr tra Stato, Regioni e Province autonome

Il programma Gol, inserito nel più ampio quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, rappresenta per Riccardo Salomone, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Trento, una discontinuità importante rispetto al passato. «Per la prima volta – ha osservato – abbiamo la possibilità di guardare alle politiche attive non come risposte emergenziali alla crisi, ma come strumenti di progettazione strutturale. Non si tratta solo di numeri o risorse, ma di un cambio di paradigma».

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E il cambio di paradigma non è solo quantitativo per il docente: «La stagione del PNRR ci costringe a uscire dalla contingenza e ad adottare una visione più ampia, sistemica, che tenga insieme politiche attive e informative, strumenti digitali, progettualità locali e valutazioni d’impatto. Ed è proprio qui che si gioca la sfida vera».

E dal “suo” osservatorio privilegiato, il Trentino, «realtà virtuosa, difficilmente esportabile, Salomone ha sottolineato che «anche se la mia regione è diversa dalla Sicilia, non per questo le esperienze locali devono essere ignorate, ma al contrario, è nei contesti più piccoli che si possono osservare con chiarezza le dinamiche reali, le buone pratiche e anche le criticità».

E sulla mole di dati generata dal programma GOL – informazioni dettagliate non solo sui beneficiari, ma sui servizi offerti dai centri per l’impiego, sui percorsi attivati, sulle relazioni tra pubblico e privato – Salomone ha precisato che si tratta di «uno strumento informativo potentissimo e dovremmo usarlo per costruire valutazioni più robuste, che non si fermino al monitoraggio amministrativo ma vadano verso vere analisi di impatto». «Occorre ripensare le politiche attive come terreno di giustizia sociale, di sperimentazione locale, di riflessione critica», ha detto.

Trasparenza nel mercato del lavoro

«È necessario considerare due esigenze fondamentali: rispondere a bisogni differenziati e potenziare l’uso delle politiche attive del lavoro», ha detto la prof.ssa Lilli Casano, docente di Diritto del Lavoro all’Università dell’Insubria.

«Il concetto di trasparenza non deve essere visto come un valore neutro, ma come un processo sociale da interpretare criticamente – ha detto -. Si ispira in particolare al pensiero di un sociologo francese che da anni sottolinea quanto sia difficile costruire strumenti realmente efficaci per garantire la trasparenza nel mercato del lavoro».

«È fondamentale ricostruire un rapporto chiaro tra chi offre lavoro e chi lo cerca. Ma per farlo, serve il coraggio di guardare oltre le formule rituali», ha aggiunto.

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Un momento dell’incontro

Politiche attive del lavoro e sulla struttura di governance che ne regola l’attuazione

Vincenzo Del Gaiso, ricercatore di Diritto del lavoro all’Università del Molise, ha evidenziato come, nel panorama attuale, «vi sia la tendenza a consolidare una regia centralizzata delle politiche nazionali, che tuttavia consente margini di differenziazione regionale. In questo assetto, le Regioni approvano e declinano le linee strategiche secondo le specificità locali».

Ha anche sottolineato che «l’efficacia dell’attuazione può essere rafforzata tramite il coinvolgimento delle parti sociali, attraverso strumenti come accordi quadro tra il Ministero del Lavoro, gli enti locali, le imprese e gli altri stakeholder del territorio». «Questo approccio multilivello e partecipativo risulta fondamentale per realizzare politiche attive più aderenti ai bisogni concreti del mercato del lavoro».

L’impatto di genere delle politiche pubbliche, in particolare nel quadro del PNRR e della doppia transizione ecologica e digitale

Un tema affrontato da Mariagrazia Militello, docente di Diritto del lavoro all’Università di Catania, che, citando uno studio della Commissione Europea, ha messo in luce un rischio concreto: gli investimenti previsti dal Piano potrebbero non solo non ridurre, ma addirittura ampliare il divario di genere. «Un paradosso che nasce da un’impostazione apparentemente neutra, ma in realtà cieca rispetto alle diseguaglianze strutturali esistenti», ha detto.

«Nel Pnrr la parità di genere è stata inizialmente prevista come obiettivo autonomo, per poi essere ricollocata come “priorità trasversale” – ha spiegato -. Una scelta che ha suscitato perplessità. Se da un lato riconosce che ogni politica può avere un impatto di genere, dall’altro rischia di diluire la visibilità e l’efficacia delle azioni specifiche».

«Per evitare questo rischio – ha precisato – sono state introdotte anche misure mirate, come il Sistema Nazionale di Certificazione della Parità di Genere. Uno strumento che punta a premiare le imprese virtuose, utilizzando meccanismi di condizionalità per l’accesso ai fondi pubblici e incentivi premiali per comportamenti organizzativi equi».

«Ogni politica – ha ricordato – ha un impatto diretto o indiretto sul lavoro delle donne. Ignorarlo significa rinunciare alla possibilità di trasformare davvero il mondo del lavoro. È fondamentale il ruolo delle amministrazioni pubbliche, chiamate a promuovere l’uguaglianza».

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Il lavoro dignitoso tra transizioni epocali e sfide del Mezzogiorno

Nel corso del convegno è intervenuto Bruno Caruso, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Catania, con una riflessione approfondita su diritto del lavoro, istituzioni e politiche socio-economiche. Coordinatore scientifico del progetto Prin “Politiche attive del lavoro, divari Nord-Sud e aree di crisi” che riunisce importanti università del Sud Italia, Caruso ha aperto il dibattito con un quadro concettuale basato su due grandi transizioni epocali: quella digitale e quella ecologica.

Secondo Caruso «queste trasformazioni non ridefiniscono soltanto il modo di produrre e generare valore, ma mettono al centro il modo in cui il lavoro viene redistribuito, incluso e tutelato socialmente». «Il mercato del lavoro non va visto come un mero meccanismo economico, bensì come un terreno di tensioni istituzionali e conflitti sociali, che richiede una governance multilivello, capace di evitare che il Mezzogiorno diventi un’area marginale accentuando fragilità preesistenti», ha detto.

Un elemento centrale dell’intervento è stata la nozione innovativa di “infrastruttura del lavoro”. Per il docente «il lavoro non può essere ridotto solo ai contratti, ma deve essere pensato come un sistema complesso che comprende scuola, formazione, servizi pubblici per l’impiego, contrattazione collettiva e strumenti normativi».

«Questa infrastruttura, tuttavia, è fortemente squilibrata nel nostro Paese: al Sud risulta debole e frammentata, e per questo va urgentemente potenziata con investimenti pubblici, politiche formative personalizzate e un rafforzamento della contrattazione decentrata», ha aggiunto.

Caruso ha, inoltre, criticato la dipendenza storica dalle politiche passive di sostegno al reddito, come la cassa integrazione o il Reddito di Cittadinanza, sottolineando la necessità di un paradigma che superi la semplice dicotomia tra politiche attive e passive. Il nuovo approccio deve mettere la dignità del lavoro al centro, integrando formazione, accompagnamento e lavoro di qualità, con una vera “missione pubblica” del lavoro intesa come pilastro di cittadinanza sociale.

Sul fronte del dialogo sociale, l’intervento ha posto particolare attenzione al «rilancio della contrattazione collettiva di prossimità, fondamentale per adattare i contratti alle specificità territoriali legate alle transizioni green e digitali, e per favorire l’inserimento stabile dei giovani nel mondo del lavoro». «Questo processo richiede però un rafforzamento delle rappresentanze sindacali e datoriali nel Sud e un’azione coordinata con le istituzioni locali», ha detto.

L’intervento si è concluso con una solida riflessione costituzionalista. «La dignità del lavoro non è solo un obiettivo economico, ma un diritto fondativo della cittadinanza, che deve ispirare le politiche pubbliche e spezzare il circolo vizioso di emigrazione giovanile e sottosviluppo nel Mezzogiorno – ha spiegato -. Occorre una visione integrata e dialogica, che supera la strategia occupazionale per affermare una vera pedagogia del lavoro».

Il sistema delle competenze

Ad introdurre la seconda parte del convegno il prof. Giancarlo Ricci, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Catania, che ha evidenziato come «il sistema delle competenze, tipico della formazione di seconda generazione, rappresenti oggi un tassello essenziale delle politiche attive del lavoro». «Queste politiche non sono più solo reattive, cioè rivolte alla gestione della disoccupazione transizionale, ma assumono una funzione anticipatoria e preventiva, investendo direttamente anche i rapporti di lavoro già in essere», ha aggiunto.

Ricci ha sottolineato l’importanza di «interventi precoci sulle dinamiche organizzative delle imprese, che non devono più attendere l’insorgere di crisi per attivarsi, ma devono anticiparle», evidenziando che «questo approccio si riflette anche sulle nuove regole di gestione delle crisi aziendali, promuovendo una logica di prevenzione e adattamento continuo».

«La formazione riveste il ruolo di leva strategica che non deve essere avviata solo in fase emergenziale o per lavoratori disoccupati, ma anche in modo competente e strutturato durante i rapporti di lavoro attivi», ha detto.

Un momento dell'intervento del prof. Bruno Caruso

Un momento dell’intervento del prof. Bruno Caruso

Aggiornamento e riqualificazione nella doppia transizione: il ruolo del Fondo Nuove Competenze e dei Fondi Interprofessionali

Alessandra Sartori, docente all’Università di Milano Statale, ha contestualizzato il tema, richiamando fonti normative storiche fondamentali – Legge n. 264/1949 che prevede corsi di qualificazione e riqualificazione per disoccupati e lavoratori in esubero, organizzati o autorizzati dal Ministero del Lavoro, Legge n. 845/1978 che attribuisce alle Regioni la competenza per organizzare e attuare iniziative formative rivolte a lavoratori con esperienze pregresse e istituisce il contributo integrativo dello 0,30% destinato per 2/3 al Fondo Sociale Europeo e ai Fondi Regionali – e illustrando l’evoluzione del sistema di formazione continua.

In particolar modo ha evidenziato tre momenti fondamentali. Il primo è il Piano Nazionale Nuove Competenze che punta a una riforma integrata delle politiche attive del lavoro e della formazione professionale, ora centrali nell’affrontare le sfide della doppia transizione digitale ed ecologica. Un piano rivolto ai disoccupati, compresi i beneficiari di misure di sostegno al reddito, ai giovani e ai lavoratori occupati. I programmi attuativi includono, tra gli altri, la Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori che valorizza fortemente la formazione continua rendendola elemento trasversale a tutti i percorsi previsti, e il Sistema Duale, che potenzia l’alternanza scuola-lavoro e il contratto di apprendistato.

Il secondo è il Jobs Act che ha integrato i diversi fondi nella rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro e successivamente coinvolti nella formazione di percettori del Reddito di Cittadinanza e, più in generale, di disoccupati e inoccupati. I governi più recenti hanno ulteriormente rafforzato il loro ruolo, prevedendone l’impiego in accordi di ricollocazione e nel finanziamento di attività formative per imprese e lavoratori coinvolti in processi di transizione.

In questo scenario si inserisce il Fondo Nuove Competenze, istituito nel 2020, oggi gestito da Sviluppo Lavoro Italia. Nato per favorire l’aggiornamento e la riqualificazione della forza lavoro nella fase post-pandemica, ha conosciuto un’estensione significativa in termini di durata, risorse e finalità. Il decreto del 2024 ha introdotto importanti novità, prevedendo una ripartizione delle risorse tra sistemi formativi guidati da imprese capofila (25%), filiere produttive (25%) e singoli datori di lavoro (50%), con l’estensione dei beneficiari a disoccupati di lungo periodo e apprendisti inseriti in percorsi di alta formazione e ricerca.

Una critica alla condizionalità rigida e un appello per un trasferimento monetario universale

L’intervento di Veronica Papa, docente di Diritto del lavoro all’Università di Catania, si è focalizzato sulle politiche di sostegno al reddito e sulle misure attive del lavoro, evidenziando i limiti strutturali del sistema italiano. «Il welfare tradizionale basato su un universalismo selettivo è stato in gran parte sostituito dall’assegno di inclusione, una misura limitata che tutela principalmente famiglie con minori o disabili, mentre per le persone adulte senza condizioni di fragilità è previsto un supporto alla formazione lavoro con importi contenuti e durata massima di un anno», ha detto.

E sugli obblighi imposti ai beneficiari per mantenere il sostegno, ha sostenuto che tale approccio «sposti i soggetti tra diverse categorie senza ridurre realmente la povertà, favorendo anzi un aumento del lavoro povero e della sotto-occupazione». Ed ha richiamato una prospettiva europea comparata, evidenziando come politiche più inclusive tendano a privilegiare incentivi positivi piuttosto che imposizioni rigide.

In chiusura ha sottolineato la necessità di «un trasferimento monetario universale, finanziato collettivamente, quale misura imprescindibile per contrastare la povertà legata al lavoro». «La mera disponibilità di servizi non può sostituire un reddito di base reale e dignitoso – ha detto -. occorre ripensare il welfare in chiave inclusiva, con una visione che superi la semplice attivazione e tenga al centro la dignità sociale».

Il lavoro povero non si risolve solo con la formazione

Loredana Zappalà, docente di Diritto del lavoro, ha portato una prospettiva critica sul rapporto tra formazione, competenze e lavoro povero, mettendo in discussione la narrativa diffusa secondo cui l’innalzamento delle competenze sarebbe la soluzione automatica per uscire dalla povertà lavorativa. Attraverso un esempio concreto – un lavoratore che acquisisce competenze green e digitali, ma rimane confinato in un impiego povero – la docente ha evidenziato «come il problema non risieda nella formazione individuale, ma nella natura strutturale del lavoro povero e nella struttura industriale del mercato».

Secondo la sua analisi, «occorre uno spostamento di attenzione verso politiche industriali che trasformino la qualità stessa del lavoro, piuttosto che affidarsi esclusivamente a interventi formativi». Tuttavia, riconosce il valore dell’approccio di Veronica Papa, specie nell’attenzione ai soggetti più vulnerabili, sottolineando l’importanza di politiche del lavoro che considerino la complessità delle condizioni di povertà e precarietà.

«Non si deve ridurre il problema del lavoro povero a una questione di skill shortage, ma si deve guardare alle dinamiche produttive e al contesto economico complessivo», ha aggiunto.

Lavoro povero e sfide di modernizzazione tra complessità normativa e corresponsabilità sociale

Tiziano Treu, figura di spicco nelle politiche del lavoro italiane, giurista italiano esperto di diritto del lavoro, ministro del Lavoro e della previdenza sociale nei governi Dini e Prodi, ha offerto una riflessione articolata sul lavoro povero come fenomeno ormai strutturale e diffuso, che coinvolge non solo lavoratori precari o disoccupati, ma anche occupati stabili con redditi insufficienti. La sua analisi ha messo in luce «le profonde trasformazioni del mercato del lavoro: precarizzazione, crescente flessibilità, segmentazione e moltiplicazione di forme contrattuali atipiche».

Treu ha criticato «la frammentazione normativa italiana, che produce incertezza e riduce la protezione sociale, chiedendo una semplificazione legislativa per garantire maggiore chiarezza ed equità tra i lavoratori». Sul piano delle politiche attive, ha proposto un ripensamento radicale sottolineando che «non basta offrire sostegni monetari o formazione di base, serve un accompagnamento integrato e personalizzato, capace di tenere conto delle diverse condizioni individuali».

Altro tema centrale del suo intervento è stata la corresponsabilità sociale. «Stato, imprese, sindacati e parti sociali devono collaborare per costruire percorsi inclusivi efficaci», ha detto Treu che riconosce le sfide poste dalla transizione digitale e green, richiamando la necessità di adeguare competenze e politiche formative, evitando che queste trasformazioni aggravino le disuguaglianze.

L’ex ministro, inoltre, ha sottolineato «l’importanza di confrontarsi con le migliori pratiche internazionali e di allinearsi agli standard comunitari per migliorare la protezione sociale e le politiche del lavoro».

Servizi, normative e politiche attive

In chiusura di convegno sono intervenuti Manuel Marocco, Giovanni Bocchieri e Rosa di Meo

Manuel Marocco, dirigente dell’INAPP, ha illustrato la nuova programmazione delle attività dell’ente fino al 2029. Un piano che si sviluppa lungo tre direttrici principali: il potenziamento dei servizi per il lavoro, il monitoraggio dei parametri regionali per una gestione più mirata delle risorse e il rafforzamento del collocamento privato.

Al centro, la necessità di rendere più efficaci le politiche attive, trasformandole in uno strumento stabile e strutturato per accompagnare i cittadini lungo tutto l’arco della vita lavorativa. «L’obiettivo – ha spiegato Barocco – è costruire un sistema in grado di rispondere tempestivamente ai cambiamenti del mercato, valorizzando anche la collaborazione tra pubblico e privato».

A seguire Giovanni Bocchieri della Regione Piemonte, invece, ha offerto una riflessione più concettuale e normativa, partendo da un assunto chiaro: le politiche attive non possono essere ridotte a un insieme di strumenti tecnici, ma devono essere considerate un vero e proprio sistema complesso, in cui si intrecciano competenze giuridiche, economiche e sociali.

In merito al Pnrr il relatore ha evidenziato che «non è solo un vincolo, ma un’opportunità per ripensare il ruolo delle politiche occupazionali nel quadro delle trasformazioni digitali ed ecologiche in atto».

Sull’integrazione del diritto alla formazione all’interno delle politiche attive del lavoro è intervenuta Rosa Di Meo dell’Università di Foggia che collabora al Prin insieme con la prof.ssa Anna Alaimo. «L’aggiornamento e l’accrescimento continuo delle competenze in Italia permangono diverse criticità, in particolare riguardo alla garanzia effettiva dei servizi per il lavoro rivolti alle persone», ha detto.

Dalla ricerca condotta la docente ritiene opportuno «estendere la calibrazione delle politiche attive non solo ai disoccupati, ma anche a coloro che rischiano di perdere il posto di lavoro a causa dell’obsolescenza delle loro competenze».

In questo contesto si inserisce il Programma Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori, il cui scopo è proprio individuare tempestivamente i lavoratori a rischio e offrire loro un sostegno adeguato, prima che si verifichi la perdita del lavoro.

Tuttavia, il coinvolgimento delle imprese in questa fase è essenziale e si articola su tre livelli distinti: analisi dei fabbisogni professionali; completa attuazione delle misure di politica attiva e formazione, che deve avvenire anche tramite la contrattazione collettiva, affidando ai soggetti collettivi il compito di gestire questi aspetti; metodo della certificazione delle competenze, strumento fondamentale per riconoscere e valorizzare le competenze acquisite nel percorso formativo.

«Questi passaggi rappresentano una strategia complessiva per costruire un sistema più inclusivo e preventivo, capace di tutelare i lavoratori e di favorire la loro adattabilità ai cambiamenti del mercato del lavoro», ha detto la docente dell’ateneo pugliese.



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