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Strage di civili: la fame come arma, gli aiuti come trappola


A Gaza continuano le stragi legate alla distribuzione di aiuti umanitari: almeno 34 palestinesi sono rimasti uccisi in operazioni condotte dalle forze israeliane durante la distribuzione di aiuti umanitari in diverse località del territorio.

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Le “pause tattiche” annunciate dal governo israeliano domenica 28 luglio in tre zone densamente popolate della Striscia di Gaza, congiuntamente ad altre misure, come il lancio di aiuti umanitari via aerea, non stanno alleviando la drammatica situazione in cui la popolazione versa. Poco dopo l’inizio della prima ‘pausa’, nella sola giornata di lunedì 29 luglio, almeno altri 78 palestinesi sono stati uccisi secondo le autorità sanitarie locali. Dopo mesi di bombardamenti incessanti, sfollamenti continui e attacchi armati contro civili in cerca di aiuto, la fame si è imposta come l’arma più crudele e devastante utilizzata contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. A testimoniarlo non sono solo le immagini strazianti e i racconti dal campo, ma anche le analisi delle Nazioni Unite. Il World Food Program ha segnalato che la crisi alimentare ha raggiunto livelli mai visti prima, con un terzo della popolazione che non riesce a mangiare da giorni.

Un’indagine di mortalità retrospettiva condotta da Medici Senza Frontiere tra il proprio personale e i loro familiari conferma un’impennata preoccupante della mortalità infantile sotto i 5 anni, con tassi dieci volte superiori rispetto al periodo precedente al 7 ottobre 2023. Questo dato allarmante si inserisce in un contesto di violenza diffusa e distruzione sistematica: un’analisi di oltre 200.000 consultazioni mediche condotte da MSF nel 2024 in sei strutture sanitarie rivela che l’83% delle ferite legate alla violenza è causato da armi esplosive, bombe, granate e altri ordigni progettati per campi di battaglia, ma illegittimamente impiegati nelle aree urbane densamente popolate di Gaza. I dati, pubblicati sulla rivista The Lancet, mostrano come queste armi causino lesioni indiscriminate per effetto dell’onda d’urto, delle schegge e del calore, colpendo in particolare bambini e donne: quasi un terzo delle consultazioni per ferite riguarda minori di 15 anni, e un altro terzo donne.

Inoltre i lanci aerei di aiuti, effettuati con il supporto di alcuni paesi europei, si rilevano inefficaci e pericolosi, costringendo le persone a rischiare la vita per cercare cibo. La soluzione più efficace, dignitosa e su larga scala sarebbe aprire i valichi di terra dove tutto è già pronto per entrare. Un camion può trasportare oltre 20 tonnellate di beni essenziali, molto più di quanto possa fare un lancio aereo. Attualmente circa 2 milioni di persone sono intrappolate in un piccolo lembo di terra che rappresenta appena il 12% dell’intera Striscia. Se gli aiuti atterrano in questa zona sovraffollata, ci saranno inevitabilmente dei feriti. Se invece cadono in aree evacuate su ordine israeliano, le persone saranno costrette a entrare in aree militarizzate, mettendo ancora una volta a rischio la propria vita pur di avere accesso al cibo. Strade, camion, cibo e medicinali ci sono: tutto è pronto, a pochi chilometri dal confine. Ciò che manca è la volontà politica di permetterne l’ingresso. È qui che l’Unione Europea deve esercitare una reale pressione, attivando tutti gli strumenti politici e diplomatici a sua disposizione: velocizzare le autorizzazioni, favorire l’ingresso di beni su larga scala e garantire una distribuzione sicura e coordinata.

Nel frattempo, le dichiarazioni di riconoscimento dello Stato di Palestina che a partire dalla  Francia stanno arrivando da più fronti rappresentano mosse dal forte valore politico, ma per renderle efficaci devono essere accompagnate da misure concrete se davvero vogliamo contribuire a fermare il massacro.  L’inerzia europea di fronte all’enorme tragedia in atto, rischia altrimenti di renderla complice.

Anche il documento firmato dai ministri degli Esteri di 30 paesi europei, tra cui si conta anche l’Italia che riconosce “la sofferenza dei civili a Gaza” e condanna “il lento afflusso degli aiuti e l’uccisione disumana di civili, compresi bambini morti per malnutrizione” oltre a denunciare la negazione di assistenza umanitaria da parte di Israele e un sistema di distribuzione che alimenta instabilità e priva i gazawi di dignità, resta privo di efficacia se non è seguito da una vera azione di pressione politica ed economica sulle autorità israeliane.

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Mentre a Gaza la popolazione civile è strangolata dalla fame e sotto il costante fuoco di un conflitto brutale, nell’ultimo periodo anche la Siria è tornata nel mirino dei raid israeliani. A essere colpiti sono stati obiettivi sensibili a Damasco e nel governatorato di Suwayda, nel sud del Paese, dove vive la minoranza drusa siriana.

In risposta ai bombardamenti israeliani su Suwayda e su Damasco, i leader della comunità drusa hanno dichiarato: “Non cerchiamo protezione esterna”, riferendosi all’iniziativa del Primo Ministro israeliano. Israele giustifica gli attacchi con motivazioni legate alla sicurezza, ma secondo diversi osservatori regionali, l’escalation militare sembra inserirsi in una più ampia strategia di destabilizzazione della regione e del fragile processo di transizione politica in Siria. L’obiettivo sarebbe quello di mantenere  una pressione costante sul territorio per consolidare il controllo israeliano sulle Alture del Golan e altre aree occupate. Le violenze hanno causato altri 175.000 sfollati interni, rappresentando un terzo della popolazione in un governato, dove già due terzi aveva bisogno di assistenza umanitaria.  Ancora una volta, civili e infrastrutture strategiche pagano il prezzo più alto.

I recenti bombardamenti israeliani su Damasco e sul governatorato meridionale di Suwayda, si collocano in un più ampio scenario di grave deterioramento umanitario della Siria. In un Paese già segnato da 13 anni di conflitto, oltre 16,5 milioni di persone necessitano oggi di assistenza urgente, mentre i fondi internazionali diminuiscono: solo il 10% delle risorse richieste è stato raccolto, e il drastico taglio dei finanziamenti USA ha costretto molte agenzie umanitarie a ridurre o sospendere interventi vitali. La crisi colpisce in modo trasversale: ospedali sovraccarichi, programmi per la protezione delle donne smantellati, siccità record e incendi che devastano campi e fonti d’acqua. In questo scenario, l’intero Paese rischia di precipitare in una nuova fase di emergenza silenziosa, sotto gli occhi di una comunità internazionale sempre meno presente. Ne parleremo più ampiamente nella prossima newsletter.



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