La settimana si è aperta con i riflettori concentrati su Affidopoli, la questione degli affidi, dai magistrati considerati sospetti, che l’allora sindaco di Pesaro e oggi candidato alla presidenza delle Marche, il dem Matteo Ricci, avrebbe discrezionalmente deliberato per guadagnare consenso. Era inevitabile che tutta l’attenzione si concentrasse sullo sviluppo della vicenda pesarese.
Era in gioco la partita elettorale delle Marche e, a rimorchio, anche quella della Campania. Con una complicazione: Ricci era stato messo sulla graticola dai Cinquestelle che si erano riservati il diritto di ergersi a giudici della sua candidabilità. È finito così nell’ombra Palazzopoli, il pasticcio delle facili licenze edilizie rilasciate dall’amministrazione milanese a grandi operatori economici, salvo esplodere al momento in cui il gip ha convalidato gli arresti per sei inquisiti.
Non considerando l’aspetto giudiziario che – come s’usa dire – farà il suo corso, resta da considerare l’impatto politico delle due vicende, Affidopoli e Palazzopoli. Due casi analoghi, ma con alcune differenze significative. L’analogia è che in entrambe le situazioni il Pd sì è stretto a fianco dei suoi amministratori salvando così sia la candidatura di Ricci che la sindacatura di Sala. La differenza riguarda due aspetti. Primo: nelle Marche è uscita confermata l’alleanza elettorale tra Pd e M5S, a Milano invece si è consumata una rottura. Conte ha chiesto le dimissioni di Sala. Il capo del movimento che fu di Grillo non si è limitato, peraltro, a chiedere l’affossamento della giunta meneghina. Ha avanzato dubbi anche sul candidato dem in Toscana, Eugenio Giani. Questo, a conferma della sua pretesa di elevarsi a giudice supremo dell’onestà e della coerenza politica delle occasionali combinazioni elettorali (non alleanze organiche, ha precisato) che di volta in volta si stringono a sinistra.
Si atteggia, insomma, sobriamente a Minosse che “essamina le colpe ne l’entrata e manda secondo ch’avvinghia, quantunque gradi vuoi che giù sia messa”. Il risultato è che la Schlein, per essere “testardamente unitaria”, lascia al suo riottoso alleato la facoltà di tenerla sotto schiaffo.
C’è una seconda significativa differenza tra i due casi. Mentre nelle Marche, bene o male (male perché Conte non ha sciolto tutte le riserve su Ricci), il campo largo ne esce rinsaldato, a Milano finisce acciaccato. Non solo il Pd fatica qui a trovare la solidarietà degli alleati, ma con l’affossamento della politica urbanistica adottata da Sala perde un pezzo pregiato della sua proposta politica.
Milano non è solo una grande città. È sempre stata la capitale morale d’Italia. Ultimamente, è diventata anche protagonista di uno sviluppo economico: ammirata da tutti, attrattiva di capitali, di eccellenze, di talenti, di studenti da tutta Europa. S’è affermata in tal modo come prototipo di successo della modernità, vanto della sinistra riformista.
Non a caso si parlava di Sala come del possibile federatore delle frammentate forze centriste, le sole che avrebbero potuto rendere vincente il campo largo. Persa quell’idea di modernità, il Pd si affida totalmente al movimentismo della Schlein. Chi ci guadagna in tutti e due i casi è l’ineffabile Conte.
Vede a Milano ridimensionata la componente centrista della coalizione. Tiene a Pesaro tra “color che son sospesi” il candidato dem. Il campo largo fatica a decollare. Resta sub iudice.
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