Questo testo è tratto dalla newsletter settimanale «Global» di Federico Rampini.
Il polverone dei dazi non si è ancora diradato, forse non si diraderà mai. Come ho scritto sul Corriere di ieri, Trump non conosce la parola “fine”, può ritrattare accordi che lui stesso ha firmato. Nell’era della geoeconomia i dazi diventano anche un’arma politica oltre che commerciale e questo apre la possibilità di infiniti capitoli successivi. Compresa “la madre di tutti i colpi di scena”, sul fronte giudiziario interno: sono pendenti i ricorsi che contestano a Trump un abuso di potere per aver imposto i dazi, non si può escludere che una disfatta in un tribunale patrio riporti la partita alla casella zero. Non assegno un’alta probabilità a questo scenario, e tuttavia devo segnalarlo.
Però buona parte di questo psicodramma deriva da una serie di errori, culminati nel coro di critiche europee contro “la resa”, “il cedimento”, “la capitolazione” di Ursula von der Leyen. I giudizi sull’operato della Commissione UE sono stati spesso viziati da motivazioni di politica interna: governi debolissimi come quello francese, e opposizioni che si dicono europeiste, hanno scelto di usare Bruxelles come capro espiatorio per segnare dei punti a proprio vantaggio.
Più in generale lo shock della “resa al bullo americano” è stato causato da analisi sbagliate, aspettative infondate, illusioni, scarsa conoscenza dei rapporti di forze, e una pervicace volontà di ignorare debolezze europee provocate da anni di politiche sbagliate. Se non vogliamo che la débâcle dei dazi si riveli del tutto inutile, se non vogliamo che altri disastri simili possano ripetersi in futuro, è urgente mettere a fuoco gli errori commessi. L’opinione pubblica italiana, e ancor più la classe dirigente, in particolare quella imprenditoriale, hanno bisogno di lucidità, non di proclami ideologici e urla scomposte. Vi sottopongo la mia lista degli errori che hanno preceduto e generato lo psicodramma di questi giorni.
1. “Donald Trump non sa quel che fa, è un idiota o un pazzo, procurerà più danni all’economia americana che agli altri. Sarà costretto a rinunciare ai dazi di fronte a un disastro economico interno, all’iperinflazione, alla rivolta dei suoi consumatori, alle proteste delle sue imprese, al crollo delle Borse”. Forse vi siete dimenticati la faciloneria di certe reazioni iniziali. Nulla di tutto questo si è concretizzato, salvo una breve correzione al ribasso degli indici azionari (presto rientrata: nonostante il calo di ieri ora siamo di nuovo vicini ai massimi, tanto che si teme una bolla speculativa) e un malumore reale in diversi settori industriali americani. Nulla che assomigli all’Apocalisse data per certa. Il Pil Usa è cresciuto del 3%, il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione. L’ultimo mese ha visto un netto rallentamento nella creazione di posti di lavoro (solo 73.000 a luglio, meno che nei mesi precedenti), ma nell’insieme l’economia americana resta la più sana e la più dinamica fra le più sviluppate. Tutto ciò viene ignorato dal coro conformista dei cosiddetti esperti – che accumulano da anni previsioni sbagliate – i quali continuano a ripetere: aspettate e l’Apocalisse verrà. Di seguito affronto alcune ragioni per cui la partita dei dazi non è così “palesemente autodistruttiva” per l’America come si è sostenuto.
2. La favola del “bazooka” europeo. In teoria l’UE aveva a disposizione un arsenale formidabile di contromisure, rappresaglie e ritorsioni. È stato favoleggiato per mesi, dal 2 aprile in poi, che con questo “bazooka” Bruxelles avrebbe messo in ginocchio l’America. Ma il “bazooka” apparteneva al regno dei sogni, delle velleità, delle chiacchiere da talk show. La strada preferita da Ursula von der Leyen – d’accordo con molti governi dell’Unione, primo fra tutti quello del suo paese – è stata invece quella della moderazione e del negoziato a oltranza. Perché? Una spiegazione fondamentale sta nell’asimmetria di questa guerra economica. Se non si capisce l’asimmetria non si capisce nulla di quanto sta succedendo. L’America ha meno bisogno del commercio estero, rispetto alla maggioranza degli altri paesi, incluse molte nazioni europee. I numeri che illustrano meglio questa disparità, sono i Trade Openness Index elaborati dalla Banca mondiale, cioè gli indici di apertura al commercio estero. Si ottengono sommando le esportazioni e le importazioni di un paese, in proporzione al proprio Prodotto interno lordo. Per la Germania esportazioni e importazioni arrivano addirittura al 90% del Pil. Per Italia e Francia il commercio estero vale il 68% del Pil. Per gli Stati Uniti? Solo il 27%. Neanche un terzo del Pil americano è legato al commercio con il resto del mondo. Se l’Europa avesse usato il famoso “bazooka”, in una guerra di ritorsioni a catena, occhio per occhio dente per dente, il danno che l’America poteva infliggere è molto superiore al danno che altri le possono restituire.
3. La favola della Santa Alleanza globale contro il Grande Satana americano. Altra teoria che è stata in voga per un po’ ed ha alimentato illusioni: il Resto del Mondo si sarebbe coalizzato per dare una sonora lezione a Trump. Cominciando da un’intesa UE-Cina. Follia pura: la Cina da anni sta devastando l’economia europea, distruggendo interi settori industriali dal solare all’eolico, dalle batterie alle auto elettriche. Nella misura in cui il mercato americano diventa meno ricettivo per le merci cinesi, questo scatenerà la Cina con un accanimento ancora maggiore per rovesciare le sue eccedenze di produzione industriale sugli altri mercati, UE in testa. Un’alleanza tra nazioni che dipendono dall’export per crescere, non ha alcun senso: se tutte vogliono avere degli attivi commerciali, con chi li avranno? Riducendosi la disponibilità a comprare dello Zio Sam, gli altri esporteranno tutti insieme su Marte? Il fatto è che per decenni siamo vissuti in un mondo dove l’America comprava a dismisura, consentendo agli altri di farsi trainare. Se questa situazione finisce, o si attenua, bisogna trarne le conseguenze. Lo ha fatto il cancelliere Merz annunciando un cambio di paradigma: se i suoi piani di investimento vanno a buon fine la Germania si vuole trasformare in una “piccola America”, cioè un’economia trainata da una robusta domanda interna. Non a caso Merz, con i piedi ben piantati per terra, non ha partecipato al coro degli ululati contro la “capitolazione”.
4. “No al riarmo, sarebbe un altro cedimento a Trump”. Poiché siamo nell’era della geoeconomia, i confini tra la sfera commerciale, quella politica, quella militare, sono sempre meno significativi. Non c’è dubbio che una parte della cosiddetta “arrendevolezza” europea sia stata dettata da considerazioni geopolitiche: bisogna avere un occhio di riguardo per l’America, chiunque la governi, perché la difesa dell’Europa dipende da Washington. Pertanto chi critica la presunta “capitolazione” non può essere al tempo stesso contrario al riarmo europeo. Se in futuro vuoi essere meno dipendente dagli Stati Uniti e meno esposto alle loro pressioni geopolitiche, devi costruirti una difesa. Anche questo Merz lo ha capito. Il cancelliere ha capito pure che il 5% del Pil in spese militari è solo un inizio…
5. “La Cina sì che sa farsi rispettare”. I bilanci finali li faremo, chissà quando, perché al momento non è certo che Pechino spunti dazi migliori del 15% europeo (che poi è un 10,5%-14% effettivo, a quanto risulta per ora). È pur vero però che la Cina è stata finora l’unica a mettere in difficoltà serie Trump. Perché? Per l’embargo sulle forniture di terre rare e minerali strategici, di cui l’industria Usa non può fare a meno. Questa è un’arma che abbiamo consegnato noi a Xi Jinping e la usa non solo contro l’America. La Cina castigò il Giappone per motivi politici nel 2010, negandogli le terre rare. Ha sospeso quelle vendite anche all’Europa, in tempi recenti, ed è pronta a rifarlo. Tutto questo nasce da un nostro malinteso ambientalismo, o forse sarebbe meglio dire pseudo-ambientalismo. Le risorse minerali del nostro sottosuolo sono diventate quasi sempre off-limits – così abbiamo deciso noi – perché non vogliamo “sporcarci” con l’attività di estrazione. Tanto meno vogliamo “sporcarci” nel raffinare i minerali grezzi. Tutte queste attività le abbiamo abbandonate quasi interamente ai cinesi – anche quando le risorse in questione si trovano in Africa o in Sudamerica – che le svolgono con energie, metodi industriali e tecnologie molto più inquinanti dei nostri. Il “bazooka” cinese in questo caso siamo noi: cioè, sono delle regole pseudo-ambientaliste che noi ci siamo dati per allontanare l’inquinamento da casa nostra, aumentandolo a livello planetario. Se vogliamo avere il “bazooka” cinese, cominciamo a scavare.
6. “Il protezionismo è il male supremo, impoverisce tutti”. Se fosse vero, perché l’UE continua a praticarlo dalla nascita? Ci sono tante forme di protezionismo, i dazi sono solo una. Le famose barriere non-tariffarie in certi casi sono ostacoli molto più insormontabili dei dazi, perché a volte si traducono in divieti totali d’importazione dall’estero. Poco dopo il Liberation Day di Trump (2 aprile) Mario Draghi ci ha ricordato sul Financial Times – attingendo al suo Rapporto del 2024 sulla competitività europea – che le varie nazioni dell’UE si ostacolano vicendevolmente, con tante forme di protezionismi mascherati. I dazi, o barriere peggiori, gli europei se li infliggono da soli, tra di loro. Poi ci sono i protezionismi mascherati come “salutisti”, quindi sacri e intoccabili. Ricordo la vicenda degli organismi geneticamente modificati (ogm), su cui la scienziata farmacologa e senatrice a vita Elena Cattaneo ha messo a nudo le nostre ignoranze e ipocrisie. Dopo anni di leggende popolari sulla nocività degli ogm, tutti gli studi scientifici ordinati dalla Commissione UE hanno determinato che non fanno male alla salute. Al diavolo la scienza, se contraddice la nostra religione noi obbediamo ai dogmi della fede, e con varie regole subdole (“etichettatura”, “trasparenza”) si continuano a ostacolare gli ogm. Di barriere simili l’UE ne usa una pletora, anche contro gli Stati Uniti che pertanto si sentono discriminati e danneggiati. Il protezionismo non lo ha inventato Trump; e qui non voglio dilungarmi su quello cinese, che batte tutti.
7. “L’America non è più una democrazia, è un’oligarchia dove comandano solo alcuni plutocrati”. Teorema molto in voga, in Europa, anche questo ha creato attorno alla questione dazi una fitta nebbia di incomprensione, illusioni, errori di calcolo. Perché se fosse stato vero, l’UE poteva dormire sonni tranquilli. I cosiddetti oligarchi, Musk e Bezos e gli altri, non vogliono il protezionismo, anzi lo odiano perché intralcia i loro business globali. Quindi lo avrebbero messo in riga loro, quell’idiota di Trump che in fin dei conti era solo una marionetta manovrata dai grandi capitalisti. Sappiamo com’è andata.
8. “Investire in America? Un altro cedimento a Trump”. Quest’accusa è stata rivolta, a turno, a Giorgia Meloni quando alla Casa Bianca rabbonì Trump promettendogli dieci miliardi di investimenti delle aziende italiane in America, e poi a Ursula quando ne ha promessi un multiplo immensamente superiore. Si tratta in realtà di investimenti già decisi da imprese private dei paesi europei, in base ai loro interessi e alle loro strategie. I giapponesi lo fanno dagli anni Settanta in proporzioni molto superiori. Se vuoi essere presente nel mercato più grosso del pianeta, se vuoi avere antenne e sensori pronti a captare i trend più recenti delle innovazioni, ti conviene avere un piede in America (e pure in Cina, se te lo consentono i cinesi). Non è un regalo, non è una concessione, investire in America è una mossa lungimirante. Purtroppo è alla portata di aziende di grandi dimensioni, mentre il capitalismo italiano vede una prevalenza di medio-piccole. Non a caso i flussi d’investimenti italiani in America sono una frazione di quelli giapponesi, tedeschi, inglesi e francesi.
9. “Ci vendicheremo contro Big Tech”. Fra le varie allucinazioni sulle rappresaglie europee che avrebbero maciullato Trump, figura anche questa. Prima di dichiarare guerra ai colossi americani dell’industria digitale, l’UE farebbe bene ad averne di suoi. Altrimenti si condanna a rimanere nella preistoria dell’intelligenza artificiale, mentre la gara fra Stati Uniti e Cina sta accelerando. Bruxelles ha spesso impedito la nascita di veri campioni europei in molti settori, le politiche industriali del continente restano nazionali. La Germania non è immune da colpe: di recente ha bloccato l’acquisizione di una banca tedesca da parte di un’italiana; questo non c’entra con Big Tech ma è stato l’ennesimo segnale che ha ragione Draghi, per misurarsi con l’America ci vorrebbe un mercato unico che non c’è.
Trump passerà ma fra i danni che avrà fatto ce n’è uno che riguarda l’intelligenza di molti italiani ed europei, la loro capacità di analizzare il mondo. Lo psicodramma dei dazi è stato provocato anche dalla “sindrome dell’esorcista”. C’è chi pensa che urlare anatemi, scomuniche, maledizioni contro questo bullo americano serva a esorcizzarlo, a sconfiggerlo, o quantomeno a galvanizzare “i buoni”, cioè tutti gli altri. Finora non è andata così.
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