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Pirro tornato dalla guerra. Il boomerang dei dazi di Trump e l’errore sui sussidi di Meloni


E se le concessioni che Donald Trump pensa di avere ricevuto con l’accordo europeo sulle tariffe fossero, di fatto, apparenti? Se tutta questa unanimità lamentosa e, francamente, ossequiosa verso il bullo di Washington, fosse di fatto una reazione istintiva, simbolica, dettata dalla nostra “americanizzazione” nei consumi e nei comportamenti, ma con basi deboli, debolissime rispetto alla realtà dei fatti? Vediamo nei particolari. Le merci europee, all’arrivo sui mercati americani, avranno un incremento del prezzo del 15%. Significa 15 dollari in più ogni cento dollari, 1,5 ogni dieci dollari e 15 centesimi ogni dollaro. Pagati, ovviamente dal consumatore Usa (per i consumatori europei non cambia nulla, poiché le tariffe sono a senso unico).

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Gli esportatori europei vedranno quindi i prezzi dei loro prodotti aumentare del 15% all’ingresso nei porti di entrata statunitensi, ma avranno anche il vantaggio di avere a disposizione tutto il mercato mondiale per esportare in maniera alternativa, e la domanda di beni, come si impara nei corsi di economia politica del primo anno di università, è elastica a livello globale, molto elastica e tale da assorbire anche un aumento di questo tipo sostituendo le esportazioni verso mercati più favorevoli (ammesso che poi questo calo della domanda dal mercato Usa vi sia davvero). 

Si tratterà di danni enormi e tali da richiedere, come ha proposto Meloni, sussidi pubblici alle imprese che producono ed esportano verso gli Usa?

L’uscita della presidente del Consiglio italiana è una affermazione ignorante dei meccanismi economici, prima che sbagliata: scaricare sulla fiscalità generale il peso dei sussidi significa far pagare ai cittadini italiani quanto chiede Trump come dazio, mentre se si lascia fare al mercato (ah, la mano invisibile del mercato!) quei dazi li pagheranno solo i consumatori Usa, non gli italiani (o gli europei). La proposta Meloni è quindi: un favore a Trump e una resa effettiva alle pretese del bullo di Washington; un non senso dal punto di vista economico; un’operazione assistenzialista che magari avrà un valore dal punto di vista elettorale, ma una volta la politica si riprometteva di educare gli elettori, non di blandirli.  

Ma, si dirà, siamo costretti a importare 750 miliardi di prodotti energetici dagli Usa! E siamo costretti a investire 600 miliardi di euro negli Usa!

Che bellezza quando si incontrano, nelle economie di mercato, modi di pensare e di reagire che sembrano modellati sulle economie planiste di sovietica memoria. Si dimentica, infatti, che la Commissione europea, e nessuno dei singoli Stati che compongono l’Ue, hanno il potere di orientare investimenti e neppure acquisti energetici da chissà dove o da chicchessia. La Commissione (anzi Ursula von der Leyen) in questo senso ha promesso qualcosa che non può garantire. Ha forse avviato un programma di incentivi per le aziende che investono negli Usa? Dagli anni Ottanta in poi abbiamo assistito alla delocalizzazione di attività economiche europee verso posti dove il lavoro costava meno, ma sarebbe davvero inaudito assistere adesso alla fuga di investitori verso un posto (gli Usa) dove il lavoro costa di più! Perché farlo? Anzi, perché il privato investitore/imprenditore dovrebbe farlo? Attratto da cosa? Dai costi di produzione più alti? Dal costo del lavoro triplo? Oppure da sgravi fiscali fondati sulle azioni di uno squilibrato che tra tre anni sarà consegnato alla soffitta della storia e che potrebbe cambiare idea domani (se non l’ha già fatto)?

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Lo stesso dicasi per gli acquisti di 750 miliardi di energia. Quali mezzi ha la Commissione (o uno qualsiasi dei 27 stati dell’Ue) per orientare gli acquisti di gas o di petrolio che, notoriamente, sono fatti sul mercato aperto e con criteri competitivi da operatori privati

In sostanza, la presidente della Commissione ha promesso cose assolutamente generiche senza avere il potere di attuarle o finanche di imporle agli operatori economici privati europei, e Trump, che ragiona come uno dei suoi sostenitori, guardando alla importanza dell’annuncio ma non al suo contenuto, è stato, di fatto, fooled (preso in giro). La cosa comica è che né von der Leyen né il resto degli osservatori si sono davvero resi conto che un accordo spalmato su cinque anni, nel pieno del primo anno del mandato di Trump su quattro complessivi, ha davvero poche possibilità di far sentire i suoi effetti, ammesso che possa farli sentire, dati i limiti suddetti della capacità di intervento della Commissione sugli operatori economici privati

L’atteggiamento della politica che osserviamo in questo frangente segnala una sudditanza di fatto a parole d’ordine e a “simboli” senza il retroterra di una minima capacità di analisi di medio periodo. Keynes diceva che nel lungo periodo siamo tutti morti, ma nel breve e nel medio periodo possono accadere cose che possono essere almeno in parte previste. Ciò che possiamo prevedere sull’accordo Ue/Usa è un danno sicuro per i consumatori americani (un aumento dei prezzi); una noia non fatale per i produttori europei, poiché i dazi di Trump possono essere assorbiti da fluttuazioni del cambio euro/dollaro, e vanno comunque visti in ottica relativa, parametrandoli ai dazi che il mercato Usa ha imposto ad altri produttori extra-europei; promesse (investimenti e acquisti energetici) che non possono essere assolutamente mantenute e quindi, come tutte le promesse vane, inesistenti.

Avrete notato che ho sempre messo in corsivo la parola privati parlando di operatori economici. Non lo avrei fatto se mi fossi trovato in Russia, con la capacità di orientare gli oligarchi e determinati processi economici; non lo avrei fatto se mi fossi trovato in Cina, dove lo Stato controlla di fatto molte leve dell’economia e il ministero del Commercio è notoriamente più importante di quello degli Esteri. Ma sono in Unione europea, economia di mercato, scorretta, sbilanciata e manchevole, ma dove i processi economici possono solo essere orientati o influenzati dalle istituzioni, nazionali e sovranazionali, non diretti. 

È il capitalismo, bellezza.



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