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Gori ragiona da sindaco di Milano (e il Pd dovrebbe prenderlo sul serio)


Se glielo si chiede a lui, la risposta è secca: no. Ma è un bel po’ di tempo che in vari ambienti si pensa a Giorgio Gori come prossimo sindaco di Milano alla fine naturale del mandato di Beppe Sala, nel 2027. Qualcuno glielo ha pure chiesto esplicitamente. Bergamasco, ex sindaco di quella città, Gori ha sempre lavorato a Milano. E poi Milano non è provinciale, non è un problema. È un riformista doc, oggi tra i leader di quella componente del Partito democratico, impegnatissimo a Bruxelles in un gruppo nel quale la convivenza tra schleiniani e riformisti non è certo agevole. Per meglio dire, è una battaglia quotidiana.

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Nell’articolo di ieri sul Foglio, Gori espone alcune idee fondamentali per la metropoli lombarda di domani individuando un orizzonte più largo di quello che domina le discussioni di questi giorni, difficilissimi per la città: si tratta di pensare Milano ben oltre Milano. Vederla un po’ come Manhattan sta a New York, alla grande New York che si spinge nel New Jersey e nel Connecticut. Solo assumendo una prospettiva così larga si può ipotizzare un futuro della città anche più socialmente sostenibile. Pensare in grande, dunque. È uno sviluppo possibile delle esperienze da lui esplicitamente richiamate, delle giunte Pisapia e Sala – soprattutto Sala – con il quale ha un rapporto forte.

«Si perderebbe tuttavia un’occasione, se non si tentasse in questo passaggio di attivare un’adeguata riflessione sul presente e sul futuro del capoluogo lombardo – ha scritto l’europarlamentare – se non si cogliessero i limiti dell’attuale modello di sviluppo e della dimensione territoriale e istituzionale su cui è incardinato, e non si tentasse di guardare oltre, per dare forma a una visione capace di esprimerne le potenzialità e il bisogno di un maggior equilibrio sociale».

Politicamente la strada non è facile. D’altronde, per i riformisti nulla è semplice in un partito nel quale la sinistra interna nel suo Dna conserva un’istintiva avversione allo sviluppismo, temendone negative ripercussioni sociali. Vero è, all’opposto, che alla cifra politico-culturale di Gori è molto sensibile il centro, che infatti già lo appoggiò alle regionali lombarde: e a Milano questo conta. In ogni caso sarebbe qualificante per l’area riformista, che già esprime molti sindaci, portare a Palazzo Marino un esponente di quella cultura politica che fin da ora sta mettendo sul tavolo elementi che saranno al centro della discussione nel Partito democratico milanese.

Soprattutto, sarebbe un’occasione preziosa per rilanciare il profilo di un Partito democratico di governo, capace di assumere la modernità come chiave di un’azione progressiva e sociale e che non si rassegna a reclamare slogan, ma che si lancia a praticare il governo concreto di una grande metropoli come Milano. Che è, ovviamente, un gran simbolo della fisionomia nazionale del Partito democratico, fisionomia sempre incerta tra tradizione radicale e progetto riformista. Milano è il luogo dove sarebbe possibile fare uno scatto in avanti. E Giorgio Gori ha qualche idea su come farlo.

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