Nel cuore della transizione digitale europea, l’entrata in vigore dell’AI Act rappresenta il tentativo più ambizioso, a oggi, di costruire un’infrastruttura normativa capace di reggere l’urto trasformativo delle tecnologie intelligenti.
L’ambizione è chiara: definire ex ante ciò che è ammissibile, ciò che è tollerabile e ciò che deve essere espunto dal perimetro giuridico comune. Ma è nel dialogo tra questa cornice vincolante e l’apparato volontario rappresentato dal Codice di condotta che si gioca oggi la vera partita regolativa. Ed è proprio nella tensione, mai risolta, tra norma e governance che il diritto è chiamato a reinventarsi come forma culturale, prima ancora che tecnica.
L’AI Act come architettura normativa differenziata
L’architettura dell’AI Act è costruita su una classificazione dei sistemi in base al rischio, che richiama – per analogia sistemica – la logica del principio di proporzionalità nel diritto costituzionale europeo. L’impostazione è esplicitamente teleologica: al centro dell’intervento regolatorio non vi è tanto la tecnologia in sé, quanto gli effetti che questa produce, o può produrre, sui diritti fondamentali, sulla democrazia, sull’equilibrio tra poteri, sull’idea stessa di spazio pubblico.
Ciò che rileva, dunque, non è la struttura tecnica dell’algoritmo, ma la sua capacità di incidere – in modo prevedibile o imprevedibile – su sfere giuridicamente protette. In questo senso, la valutazione del rischio non è un’operazione neutra, ma un atto eminentemente politico. Non esiste un rischio intrinseco, isolato dalla società che lo percepisce, lo tematizza e lo regola. Esiste un rischio costituzionalizzato, un rischio che è già diritto.
Il Codice di condotta come strumento para-normativo
In tale contesto, l’introduzione di un Codice di condotta volontario – promosso dalla Commissione Europea e rivolto in particolare agli operatori di sistemi ad alta complessità – non rappresenta un semplice complemento esecutivo del regolamento. Al contrario, si configura come uno snodo strategico nel tentativo di tradurre l’ambizione regolativa in prassi operative. Il suo carattere volontario, infatti, è solo apparente: in un contesto giuridico fortemente asimmetrico, l’adesione al Codice diventa il passaggio quasi obbligato per chi voglia dimostrare in via anticipata la conformità dei propri processi agli standard europei.
La volontarietà, in questa prospettiva, è solo la superficie visibile di una coazione strutturale. Il vero potere del Codice risiede nella sua capacità di creare un linguaggio comune tra autorità pubbliche e attori privati, traducendo le norme astratte in criteri verificabili, processabili, auditabili. È questo che ne fa, a pieno titolo, uno strumento di co-regolazione: non alternativo alla legge, ma necessario alla sua effettività.
Il ruolo costituente della reputazione normativa
Ma c’è di più. Il Codice di condotta si inserisce in un sistema sempre più articolato di compliance reputazionale, in cui la legittimità regolativa non si costruisce solo sulla base della legalità formale, ma anche – e forse soprattutto – attraverso la coerenza tra prassi aziendali e principi fondamentali dell’ordinamento. In questo senso, il Codice è un dispositivo di responsabilizzazione reputazionale, un elemento di pressione culturale prima ancora che normativa.
Il suo effetto principale non è sanzionatorio, bensì performativo: induce comportamenti, orienta scelte, struttura le narrative interne all’impresa. È, in ultima istanza, una forma di regolazione simbolica che integra – senza mai sostituire – l’intervento del legislatore.
Governance multilivello e autorità emergenti
La dinamica che si va delineando è quella di una governance multilivello, nella quale le autorità pubbliche europee – in particolare l’Ufficio AI istituito a Bruxelles – assumono un ruolo di coordinamento, monitoraggio e promozione di standard, lasciando ai soggetti privati il compito di implementare procedure operative coerenti. Il Codice, in questo contesto, si configura come spazio di convergenza tra il diritto europeo, le esigenze di mercato e le istanze della società civile.
Tale configurazione ricorda da vicino quanto accaduto nel settore della moderazione dei contenuti digitali, con l’evoluzione dal codice di condotta del 2016 sul discorso d’odio al Digital Services Act. In entrambi i casi, si assiste a una progressiva formalizzazione di ciò che era nato come misura volontaria: un’evoluzione che mette in discussione il confine, spesso fittizio, tra diritto e soft law.
Codice di condotta AI Act, il problema del rischio sistemico
Una delle novità più rilevanti del Codice è l’attenzione ai casi in cui i sistemi intelligenti possano produrre effetti sistemici su sicurezza pubblica, ordine economico, tutela della salute, integrità delle istituzioni democratiche. In tali casi, la logica del rischio assume una valenza esplicitamente costituzionale: si tratta, in effetti, di una categoria di “rischio pubblico”, per il quale la prevenzione non è solo buona prassi ma obbligo istituzionale.
Il Codice, in questo contesto, si propone come strumento di allerta precoce e di mitigazione tempestiva, offrendo ai firmatari linee guida per identificare tempestivamente scenari critici e attivare risposte coordinate. È, ancora una volta, un esempio di normatività diffusa, che si muove nel solco della precauzione ma ne amplia il raggio d’azione fino a inglobare la responsabilità sociale d’impresa.
La sfida della trasparenza operativa
Altro asse fondamentale del Codice è la trasparenza. Ma qui occorre intendersi: non si tratta della trasparenza formale delle informative, ma di quella operativa, che permette a soggetti terzi – pubblici e privati – di comprendere, valutare e contestare le modalità di funzionamento di un sistema. È, in altre parole, una trasparenza come condizione di possibilità dell’autonomia individuale e della responsabilità collettiva.
Il problema è che tale trasparenza non può essere interamente imposta per legge, perché troppo dipende dalla struttura tecnica dei sistemi, dalle scelte architetturali, dai modelli organizzativi delle imprese. Da qui l’importanza del Codice, che può funzionare come ponte tra l’astrazione normativa e la concretezza ingegneristica, articolando obblighi generali in pratiche verificabili.
Ai act e codice di condotta, una riflessione sul metodo: dal comando all’orientamento
Nel confronto tra AI Act e Codice di condotta emerge una trasformazione profonda del metodo regolativo. Si passa, progressivamente, da un modello centrato sul comando e controllo a uno basato sull’orientamento, sull’incoraggiamento, sulla costruzione di ecosistemi. Il diritto non detta più soltanto ciò che è lecito e ciò che non lo è: propone, accompagna, incentiva.
In questa transizione, il Codice assume una funzione paradigmatica. La sua forza non deriva dall’imposizione, ma dalla capacità di costruire filiere di senso condiviso tra istituzioni, imprese, cittadini. È una forma di regolazione narrativa, che si affida alla persuasione più che alla coercizione, e che misura il proprio successo non nel numero delle sanzioni, ma nella diffusione delle buone pratiche.
Costituzionalismo e tecnologie emergenti
Da un punto di vista più generale, l’interazione tra regolazione algoritmica e codici di condotta si inserisce nel più ampio quadro del costituzionalismo europeo alla prova della tecnologia. Si tratta di una prova duplice: giuridica, perché occorre adattare categorie nate per l’umano a fenomeni non pienamente governabili dall’umano; e culturale, perché richiede di ripensare l’idea stessa di controllo democratico nell’epoca della delega automatica.
Il Codice, in questa prospettiva, rappresenta uno spazio di mediazione, in cui il diritto sperimenta forme nuove di presenza. Non più solo regola, ma anche processo. Non solo decisione, ma anche ascolto. Non solo sanzione, ma anche apprendimento reciproco.
Un diritto che precede se stesso
In definitiva, il Codice di condotta non è uno strumento ancillare, ma il luogo in cui il diritto prova a precedere se stesso. È qui che si gioca la sfida più alta della regolazione contemporanea: coniugare certezza e flessibilità, tutela e innovazione, norma e contesto. È il diritto che si fa istituzione narrativa, capace di anticipare, orientare, plasmare.
Nel Codice si riconosce dunque l’embrione di una nuova grammatica costituzionale, adeguata all’era della complessità, in cui la forza della legge non sta solo nel potere di comando, ma nella capacità di costruire orizzonti comuni. Il suo successo sarà misurato non dalla sua applicazione coattiva, ma dalla sua capacità di essere adottato, assorbito, trasformato in cultura.
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