Per oltre mezzo secolo le grandi società di consulenza hanno occupato un ruolo centrale nell’economia globale, offrendo alle imprese conoscenze strategiche, soluzioni organizzative e strumenti decisionali su misura. Il loro valore si fondava sulla capacità di sintetizzare dati, costruire modelli, formulare raccomandazioni e presentare il tutto in modo rigoroso e convincente. Le aziende si affidavano a loro nei momenti critici: ristrutturazioni, acquisizioni, nuovi mercati, transizioni digitali. In cambio, pagavano tariffe elevate per un sapere che appariva esclusivo e difficile da ottenere altrove.
Oggi quella esclusività non esiste più. O nel migliore dei casi si sta dissolvendo rapidamente. Gran parte del lavoro analitico su cui si basava la consulenza tradizionale può essere svolto da strumenti di intelligenza artificiale generativa. ChatGPT, Claude o Llama sono usate dalle aziende quotidianamente per fare analisi di settore, benchmark competitivi, simulazioni operative, sintesi strategiche: tutto questo in tempi ridotti, a costi contenuti e senza la necessità di intermediari. I clienti lo sanno. E cominciano a chiedersi se ha ancora senso pagare tariffe elevate per un output che le nuove tecnologie permettono di ottenere in forma di software.
Nel solo biennio 2023–2025, il mercato globale della consulenza ha iniziato a mostrare segni concreti di rallentamento. McKinsey & Company, la più visibile tra le società del settore, ha registrato nel 2024 un incremento del fatturato limitato al due per cento, secondo le stime di Kennedy Research citate da un interessante approfondimento dell’Economist. E ha ridotto il proprio organico globale di circa cinquemila unità in soli diciotto mesi. Una brusca frenata rispetto alla crescita sostenuta negli ultimi dieci anni. Il mercato si sta livellando, e i competitor guadagnano terreno: come riporta il Financial Times, Boston Consulting Group ha segnato un aumento del dieci per cento, Bain del nove per cento. Numeri positivi in percentuale, ma i dati assoluti raccontano un riequilibrio: se nel 2012 McKinsey generava il doppio del fatturato di Bcg, oggi il distacco si è ridotto a meno di un quinto.
Oltre i numeri: le società di consulenza non stanno scomparendo, ma stanno perdendo terreno e guadagni, costrette a rivedere il loro ruolo proprio mentre il mondo che avevano contribuito a strutturare sta cambiando profondamente. Ma in quale direzione? Prima di tutto riducendo il peso delle attività analitiche di base – un tempo affidate a team junior – per concentrarsi su servizi a maggiore contenuto tecnico o trasformativo. L’organizzazione piramidale tradizionale, basata sull’assunzione massiccia di neolaureati da far crescere all’interno, sta lasciando spazio a modelli più orizzontali, con team snelli e competenze miste. Cresce la domanda di figure ibride: ingegneri, data scientist, esperti di automazione e cambiamento organizzativo.
Non a caso McKinsey ha introdotto un sistema proprietario, Lilli, che consente ai consulenti di accedere e interrogare l’intero archivio documentale della società. Viene utilizzato settimanalmente da oltre il settanta per cento dei dipendenti globali e consente di svolgere in pochi minuti attività che richiedevano ore di lavoro manuale. E ha potenziato la divisione QuantumBlack, oggi punto di riferimento per i progetti in ambito dati e machine learning. Il profilo del consulente tradizionale – generalista, con background economico-giuridico – è sempre meno centrale.
Anche Boston Consulting Group ha investito nella creazione di una piattaforma interna, BCG X, che integra più di tremila tecnologie. Ha inoltre sviluppato strumenti di generative AI, come Deckster e GENE, per la produzione automatica di presentazioni e brainstorming guidati. Bain & Company ha avviato una partnership globale con OpenAI e messo a disposizione dei suoi diciottomila consulenti l’accesso a GPT-4 per attività operative e creative.
Sempre più aziende, infatti, scelgono di sviluppare internamente competenze che prima affidavano all’esterno: assumono specialisti in data science, implementano strumenti di analisi digitale e utilizzano soluzioni software erogate via cloud tramite abbonamento (i cosiddetti strumenti SaaS, software as a service).
Questa evoluzione cambia anche il modo in cui le imprese si rapportano alla consulenza. Non la abbandonano del tutto, ma la utilizzano in modo diverso: non più per delegare l’intero processo decisionale, ma per ricevere supporto su progetti specifici, spesso con obiettivi e risultati misurabili. In questo scenario, ciò che conta non è più solo la solidità dei metodi o la qualità dell’analisi, ma la capacità di ottenere risultati concreti in tempi rapidi. Le competenze di implementazione, un tempo considerate secondarie rispetto alla strategia, diventano oggi l’aspetto più richiesto.
Le società che un tempo vivevano di asimmetria informativa devono ora dimostrare di saper generare impatto, non solo insight. Sempre più clienti chiedono modelli basati sui risultati, con compensi legati a obiettivi raggiunti piuttosto che al tempo impiegato. Altri richiedono forme di abbonamento mensile per supporti continuativi. Alcune società stanno cercando di monetizzare le proprie soluzioni software in forma di licenza, accorciando il ciclo tra consulenza e prodotto. Questo spinge il settore verso una ibridazione con il modello delle tech company. Ma impone anche investimenti in sviluppo, manutenzione, sicurezza. E cambia le competenze necessarie per competere.
Il risultato è un cambiamento di paradigma. Le società che vorranno restare centrali dovranno trasformarsi da fornitori di expertise a partner di trasformazione. Non più figure d’élite che dettano soluzioni, ma interlocutori capaci di costruirle insieme ai clienti, tenendo conto dei vincoli organizzativi, dei contesti culturali, dei fattori politici. E soprattutto tornare a essere ciò che erano all’origine: specialisti nella gestione dell’incertezza, interpreti delle trasformazioni complesse, progettisti del futuro. Non per dire cosa fare, ma per aiutare a farlo. O, come si dice in gergo, saper mettere a terra.
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