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Donald Trump e la sua politica economica: tra proclami, improvvisazione e continui ripensamenti


Donald Trump e la sua politica economica: tra proclami, improvvisazione e continui ripensamenti

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Durante la sua presidenza (2017–2021) e anche nel periodo successivo, Donald Trump ha rappresentato una figura polarizzante nella politica statunitense, non solo per lo stile comunicativo aggressivo e fuori dagli schemi, ma anche per la gestione dell’economia americana. La sua politica economica, al di là dei proclami elettorali e delle dichiarazioni roboanti, si è spesso contraddistinta per la mancanza di una programmazione coerente e una visione di lungo periodo. Questo ha generato imbarazzo anche tra alcuni esponenti del suo stesso partito, il Partito Repubblicano, tradizionalmente vicino alle politiche del libero mercato.

Promesse roboanti, risultati altalenanti

Trump ha basato gran parte della sua retorica economica sulla promessa di “Make America Great Again”, slogan dietro al quale si nascondevano proposte spesso semplificate, se non addirittura contraddittorie. La sua azione si è concentrata su alcuni assi fondamentali:

  • Tagli fiscali massicci, soprattutto per le imprese, con l’idea che ridurre le tasse avrebbe stimolato investimenti e occupazione.

  • Politica commerciale aggressiva, con l’introduzione di dazi doganali contro la Cina e altri Paesi, nel tentativo di ridurre il deficit commerciale.

  • Riduzione della regolamentazione federale, soprattutto in ambito ambientale e finanziario.

  • Nazionalismo economico e rilocalizzazione della produzione manifatturiera.

Tuttavia, a fronte di questi obiettivi, l’attuazione concreta delle politiche economiche ha mostrato forti segni di improvvisazione.

I tagli fiscali del 2017: un boomerang?

La Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), firmata da Trump nel 2017, è stato il più importante intervento economico del suo mandato. Ha ridotto l’aliquota dell’imposta sulle società dal 35% al 21% e introdotto sgravi fiscali temporanei per le persone fisiche. Secondo la narrativa ufficiale, la riforma avrebbe dovuto pagarsi da sola attraverso la crescita economica.

I dati, però, raccontano una realtà più complessa: se da un lato il PIL ha registrato un modesto aumento nel biennio successivo, la riforma ha contribuito all’ampliamento del deficit pubblico e non ha prodotto il boom di investimenti sperato. Le imprese, invece di reinvestire massicciamente in produttività o occupazione, hanno spesso utilizzato gli sgravi per operazioni di buyback azionario.

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La guerra dei dazi: un gioco pericoloso

Uno degli elementi più controversi della politica economica di Trump è stata l’imposizione di dazi su beni importati, soprattutto dalla Cina. L’obiettivo dichiarato era quello di proteggere l’industria americana dalla concorrenza sleale e di riequilibrare il deficit commerciale. Tuttavia, i dazi si sono spesso trasformati in una tassa indiretta per i consumatori americani, che si sono trovati a pagare prezzi più alti per beni di uso quotidiano.

La guerra commerciale ha creato forti incertezze nei mercati internazionali e non ha portato i risultati sperati: la bilancia commerciale degli Stati Uniti è rimasta negativa e molte aziende americane, specialmente nel settore agricolo, sono state danneggiate dalle contromisure cinesi. Non a caso, l’amministrazione Trump ha dovuto destinare decine di miliardi di dollari in sussidi ai contadini colpiti.

Instabilità decisionale: continui cambi di rotta

Uno degli aspetti più imbarazzanti della politica economica trumpiana è stata la sua costante imprevedibilità. Molte decisioni venivano comunicate tramite Twitter, spesso senza consultare le agenzie competenti o il Congresso. Le dichiarazioni si susseguivano con toni altisonanti, per poi essere contraddette o modificate nel giro di pochi giorni.

Un esempio lampante è stato il rapporto con la Federal Reserve: Trump ha più volte attaccato pubblicamente il presidente della Fed, Jerome Powell, chiedendo tassi di interesse più bassi, rompendo una prassi istituzionale di rispetto dell’indipendenza della banca centrale. Anche sui dazi, l’andamento ondivago dei negoziati commerciali ha destabilizzato le borse e generato confusione tra gli operatori economici.

Il post-Covid e l’eredità economica

L’esplosione della pandemia nel 2020 ha messo in crisi il modello economico trumpiano. Dopo un iniziale rifiuto di riconoscere la gravità dell’emergenza sanitaria, l’amministrazione ha adottato alcune misure di stimolo, tra cui assegni diretti ai cittadini e programmi di sostegno alle imprese. Tuttavia, anche in questo caso, la risposta è apparsa frammentata, tardiva e scarsamente coordinata con gli Stati e le agenzie sanitarie.

L’eredità economica di Trump, al termine del suo mandato, ha lasciato gli Stati Uniti con un debito pubblico aumentato, un mercato del lavoro indebolito dalla pandemia e un contesto internazionale più teso.

Populismo economico senza visione

La politica economica di Donald Trump è stata, in ultima analisi, più reattiva che proattiva, più ideologica che pragmatica, più spettacolare che efficace. Le sue disposizioni si sono spesso rivelate dei compromessi tattici, frutto di improvvisazione piuttosto che di pianificazione strategica. A ciò si aggiunge l’imbarazzo istituzionale per una gestione caotica, fatta di dichiarazioni contraddittorie, attacchi ai tecnici e inversioni di marcia.

Nonostante il consenso ancora forte tra parte della base repubblicana, molti economisti concordano sul fatto che Trump abbia inaugurato una stagione di populismo economico, dove il consenso si costruisce più con slogan e colpi di scena che con riforme strutturali.

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