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I rischi di una nuova caccia al tonno rosso


In Italia cresce l’interesse per il business dell’ingrasso di tonno rosso negli allevamenti ittici, in assenza di norme ambientali (sebbene siano passati 19 anni dal Testo unico sull’Ambiente che stabiliva la necessità di un decreto ministeriale), regole sulla gestione degli impianti, criteri sul benessere animale in grado di evitare un nuovo collasso. Accade mentre la popolazione di questa specie inizia a riprendersi dopo anni di catture selvagge, grazie ai limiti sulla pesca introdotti dalla Commissione internazionale per la Conservazione dei tonni dell’Atlantico (Iccat). La maggiore disponibilità di tonno rosso nel Mediterraneo e i finanziamenti europei per pesca e acquacoltura, infatti, hanno riacceso l’interesse per gli impianti intensivi. Lo racconta l’Unità Investigativa di Greenpeace Italia nel nuovo report ‘Corsa all’oro rosso’, che denuncia anche la mancanza di meccanismi di trasparenza e controllo nell’assegnazione dei finanziamenti europei per gli allevamenti ittici, esposti al rischio di truffe e irregolarità. “Intorno al business del tonno rosso si muovono forti interessi economici, come dimostrano le dichiarazioni pubbliche di FedAgriPesca – segnala Greenpeace – che propone da tempo una nuova ‘rotta italiana del tonno rosso’ e parla di un business da 100 milioni, ma anche l’autorizzazione concessa per un nuovo impianto di ingrasso a Battipaglia, in provincia di Salerno a una società priva di dipendenti o fatturato, senza alcuna valutazione d’impatto ambientale”.

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La maggiore disponibilità di tonno rosso e il mercato globale – Nel report si ricorda che, negli ultimi anni, sono stati fatti alcuni passi avanti per rendere la filiera del tonno rosso più sostenibile, anche sotto la spinta delle associazioni ambientaliste. Dal 2007, per esempio, le quote di pesca annuali stabilite dallʼIccat sono state ridotte, ma sono stati anche intensificati i controlli. E così, oggi, l’Unione internazionale per la conservazione della natura colloca il tonno rosso (Thunnus thynnus) nella categoria di ‘rischio minimo’. Ma, come si legge nella Lista Rossa dell’Iucn dei Pesci ossei marini italiani, se le misure di tutela venissero meno, il tonno rosso tornerebbe velocemente in crisi. Di fatto, gli allevamenti intensivi per lʼingrasso del tonno rosso nel mar Mediterraneo sono spinti dalla domanda del mercato globale, soprattutto asiatico. Sulle tavole europee, infatti, si trovano perlopiù altre specie di tonno. “Il maggiore consumatore in assoluto è il Giappone – racconta Greenpeace – dove il tonno rosso è considerato un prodotto di pregio, indispensabile per la produzione di sashimi e sushi”. Esportare lontano conviene: allʼasta di Tokyo, i prezzi variano dai 50 agli oltre 300 euro al chilo.

Gli impatti del modello produttivo e il vuoto normativo – I tonni, per natura migratori, non nascono in cattività: i pescatori li catturano in mare aperto, per poi costringerli in gabbie e tenerli allʼingrasso. “Poi li abbattono, di solito sparandogli in testa. Queste gabbie concentrano elevate quantità di biomassa in spazi ristretti. Gli scarti organici, come feci e residui di cibo, si accumulano nei fondali sotto gli impianti – si spiega nel report – modificando le caratteristiche chimiche e biologiche dei sedimenti. Ciò può portare alla riduzione dell’ossigeno presente nellʼacqua e mettere a rischio la biodiversità”. In Italia non esistono ancora regole chiare in grado di prevenire i danni agli habitat marini generati dagli impianti intensivi di acquacoltura e piscicoltura e tutelare il benessere animale “che si tratti di farm dedicate al tonno rosso o di allevamenti per altre specie di pesci, crostacei e molluschi economicamente rilevanti”. Il riferimento normativo principale è il Testo unico sull’Ambiente del 2006, che stabilisce la necessità di un decreto ministeriale volto a definire i criteri per contenere lʼimpatto ambientale di tutte le attività di acquacoltura e piscicoltura. Ma questo decreto non è mai stato adottato. Nel 2022, la legge SalvaMare ha ripreso questo obbligo, imponendo lʼemanazione del decreto entro sei mesi dalla sua entrata in vigore. Tuttavia, nonostante siano passati altri due anni, del provvedimento non cʼè traccia. Il Ministero dellʼAmbiente ha dichiarato più volte che il testo è in fase di definizione e che sono in corso interlocuzioni tra i soggetti competenti, ma senza arrivare mai ad una conclusione. Nel 2020, invece, il Ministero dell’Agricoltura ha definito in totale autonomia un disciplinare (volontario) per l’acquacoltura sostenibile, che però non si applica all’ingrasso del tonno rosso. Morale: in Italia non esistono regole precise su quantitativi e tipologia delle sostanze rilasciate in mare dagli allevamenti (e quindi sulle modalità di gestione degli impianti) mentre mancano confini chiari per quanto riguarda il benessere animale.

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Gli stock di tonno rosso (e i finanziamenti europei) che fanno gola – LʼUnità Investigativa di Greenpeace Italia approfondisce la situazione nel nostro Paese, mostrando come lʼappetito intorno agli stock di tonno rosso stia crescendo in modo disordinato e poco trasparente. Un esempio: “Nellʼautunno del 2024, a Battipaglia è stata autorizzata la costruzione di un nuovo allevamento intensivo per il tonno rosso, con una concessione demaniale rilasciata a favore di una società, la Tuna Sud, inattiva, senza dipendenti né fatturato”. Anche il Fondo europeo che sostiene pesca ed acquacoltura in generale (il Feampa) è soggetto ad errori e truffe. Di recente, in Puglia, un gruppo di aziende di Manfredonia (raggiunte da interdittiva antimafia) ha ricevuto 1,4 milioni di aiuti senza mai costruire gli impianti per cui il finanziamento europeo era stato richiesto.

I dati del ministero e il nodo della trasparenza – L’indagine di Greenpeace svela la mancanza di trasparenza sugli impianti attivi di ingrasso per il tonno rosso negli allevamenti ittici del nostro Paese. Nel database Iccat si trova traccia di tredici impianti italiani, ma solo in tre casi si forniscono le coordinate per la localizzazione e solo per sei strutture viene annotata la capacità produttiva. “I quattro impianti più capienti, con una produzione dichiarata di 7525 tonnellate, pari all’80% del tonno allevato in Italia, risultano di ‘proprietà’ del Ministero dell’Agricoltura, ma non è chiaro – spiega Greenpeace – se si tratti di strutture vuote realmente esistenti o, com’è più probabile, di ‘impianti fantasma’, a cui corrisponderebbero solo virtualmente le tonnellate di tonno allevato comunicate dal nostro Paese all’Iccat”. Lo stesso Ministero, contattato da Greenpeace, ha dichiarato che tali impianti non risultano operativi. “Sembrerebbe, quindi, che solo pochi impianti italiani siano attivi o perlomeno potenzialmente funzionanti e che l’Italia stia utilizzando il database dell’Iccat non per monitorare la capacità produttiva italiana, ma come sistema di prenotazione per avallare future capacità di ingrasso, in modo da poterle poi attribuire a eventuali impianti di nuova costruzione” spiega Alessandro Giannì di Greenpeace Italia. Che aggiunge: “Un meccanismo del genere è ovviamente contrario alle finalità dell’Iccat e fa sospettare che il Ministero stia dando seguito a richieste da parte del mondo produttivo”.

Photocredits Greenpeace Italia



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