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La task force di Nordio: un punto sul dramma delle carceri


Per comprendere l’urgenza della cosiddetta task force con il compito (già avviato) di dialogare con magistratura di sorveglianza e direttori degli istituti penitenziari, sarebbe utile ricorrere ai dati. Nel 2024 il Cnel – in occasione della prima edizione dell’evento “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema in carcere e fuori dal carcere” – ha commissionato a due istituti di ricerca (Censis e The European House – Ambrosetti) la realizzazione di report sullo stato attuale delle carceri italiane, per comprenderne la gravità ed i margini di miglioramento. Nel giugno del 2025, durante la seconda edizione del medesimo evento, Censis ha fatto pervenire i dati aggiornati. Dalla combinazione di questi tre report emerge un quadro a dir poco infelice. La popolazione carceraria ammonta a poco più di 62000 persone, con un sovraffollamento reale, cioè al netto dei posti effettivamente disponibili, del 133%, in aumento rispetto al 119% del 2024: l’insieme degli istituti penitenziari dovrebbe contenere poco più di 50000 detenuti. Non è un caso infatti che dalle dichiarazioni di Nordio sia emersa la cifra di 10105 detenuti che sarebbero almeno astrattamente idonei a fruire delle misure alternative al carcere e quindi ad uscirne: con questa espressione si intendono modalità di esecuzione della pena diverse dalla reclusione, basate sull’assunto, fortemente riscontrato dalle statistiche sulla recidiva, che il percorso rieducativo sia molto più efficace quando non siano completamente recisi i legami tra il detenuto e la propria quotidianità. Le misure alternative tuttavia non sono attribuite in modo automatico al singolo condannato, ma devono passare attraverso il vaglio della magistratura di sorveglianza, coadiuvata tra gli altri anche dalla direzione degli istituti penitenziari: è dunque in questo frangente che si inserirebbe la task force,con l’obiettivo di facilitare ed incentivare le comunicazioni fra questi organi. 

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A dire il vero, non c’è tanto da commentare sulla task force in sé, che è da valutare ovviamente in senso positivo, anche perché incentiva il ricorso ad un istituto (le misure alternative), da considerarsi come il futuro del diritto penale e del diritto penitenziario, in una prospettiva della pena sempre meno carcerocentrica e sempre più diretta all’implementazione dell’art. 27 comma 3 della costituzione: “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per semplificare: meglio la task force dell’amnistia e dell’indulto, queste due ultime soluzioni tanto semplici quanto barbare, per il semplice fatto di portare alla scarcerazione non tanto sulla base di un personale percorso rieducativo del singolo detenuto quanto invece sul parametro del tipo di reato commesso: insomma, non si tratterebbe del classico indulto “libera tutti”. Tuttavia è altrettanto vero che, a causa dell’estrema urgenza di sfollare gli istituti, possono sorgere perplessità sui criteri che verranno in concreto adottati per l’attribuzione di una misura alternativa a così tanti detenuti in così poco tempo: è inevitabile che il ricorso a questo istituto non sarà effettuato in modo molto ortodosso, al punto che la differenza di questa task force con amnistia ed indulto sarà molto meno marcata: le uniche premure adottate saranno l’esclusione a priori di alcuni reati e la mancata inflizione di gravi sanzioni disciplinari negli ultimi 12 mesi. D’altra parte, al netto delle criticità, è anche da accettare che l’impellenza tollera i compromessi.  

Il focus della discussione deve invece concentrarsi su quel 122% di affollamento nominale (senza cioè dedurre i posti non disponibili): un sistema come il nostro, che punta ad essere meno carcere-centrico, non può permettersi di stanziare su queste percentuali, salvo poi ricorrere a misure palliative ed emergenziali per rimandare il problema ai governi successivi. Durante la scorsa legislatura, il Ministro Cartabia ha riformato il processo in modo da venire incontro anche a questa esigenza; ha in più ampliato i margini dell’art. 131-bis del codice penale, così da aumentare i proscioglimenti per particolare tenuità del fatto. Questi interventi strutturali devono essere tuttavia sostenuti e coadiuvati anche a livello di diritto sostanziale (fattispecie astratte di reati) e di organizzazione penitenziaria

Sul primo punto si deve purtroppo registrare una forte tendenza panpenalistica, che trova il proprio recente simbolo nella riforma sulla sicurezza, che ha aumentato in modo significativo il numero e le pene dei reati: si tratta di una scelta politica assolutamente anacronistica e populistica, che va in senso contrario al principio (solido tra i professionisti del settore) del diritto penale minimo, cioè di diritto penale come strumento di extrema ratio. Anziché aumentare i reati, numerose fattispecie dovrebbero essere al contrario depenalizzate: depenalizzare non significa necessariamente rendere lecito, ma semplicemente evitare di coinvolgere il diritto penale, ricorrendo invece alle sanzioni di diritto civile e amministrativo, le cui misure (come la sospensione della patente) sono connotate comunque da una forte deterrenza a causa del grave impatto che hanno sulla nostra quotidianità. La depenalizzazione ha il doppio effetto di ridurre a monte il carico già estremo delle procure e dei giudici penalisti, a valle di far uscire di carcere chi è già stato condannato per quel reato, alleggerendo il compito agli agenti di polizia penitenziaria.

Sul secondo punto i report distinguono una prassi viziosa da alcuni esempi virtuosi. In generale, dal 2010 si stava registrando un miglioramento in tema di affollamento, salva poi una inversione di tendenza negli ultimi anni. Oltretutto non vanno ignorate le solite differenze tra settentrione e centro-meridione, soprattutto per quanto attiene al profilo di impiego dei detenuti all’interno di cooperative ed imprese. Sulla scia di quanto affermato sopra per le misure alternative, a livello penitenziario si deve insistere sulla creazione di un ponte tra carcere e società: dunque, gli obiettivi sono la formazione professionale e l’impiego dei detenuti. Per quanto riguarda questi profili, si deve denunciare in primo luogo il mancato utilizzo di tutti gli stabilimenti disponibili: su 627 spazi censiti (per formazione e attività lavorative) nei 190 istituti penitenziari, 365 sono stati dichiarati attivi e i restanti 262 non attivi. Fra gli attivi, il 72,9% è stato valutato in condizione discreta o ottima. Fra gli spazi non attivi, il 47,8% risulterebbe in uno stato tale da poter essere utilizzato adeguatamente. Di qui emerge l’opportunità di miglioramento, nell’accesso dei detenuti alla formazione, semplicemente a partire dallo sfruttamento di risorse già esistenti ed utilizzabili. In secondo luogo nel numero dei detenuti coinvolti in attività lavorative, con una percentuale che si attesta mediamente (ma gli addendi variano notevolmente tra i vari istituti) al 33%: si tratta tuttavia di un dato da ponderare in quanto la stragrande maggioranza lavora all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria, quindi questo “ponte sociale” per questi soggetti non può dirsi costituito. Il lavoro da incentivare sarebbe invece quello presso cooperative ed imprese, che nell’istituto italiano medio raggiunge percentuali risibili: le imprese in particolare non possono permettersi comprensibilmente di assumere soggetti generalmente poco formati a livello professionale, senza neanche considerare la lentezza burocratica per la loro assunzione. Sarebbe perciò auspicabile insistere maggiormente sui partenariati pubblici-privati e sugli apprendistati, unitamente ad agevolazioni fiscali e previdenziali per i datori di lavoro. In sintesi, bisogna seguire l’esempio scandinavo, sulle cui orme si distinguono gli istituti penitenziari di Bollate, di Massa Carrara e di Padova, le cui percentuali di detenuti impiegati presso imprese e cooperative sono, ovviamente in senso positivo, assolutamente fuori scala rispetto al resto d’Italia.

In conclusione, non si può risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri con interventi sporadici e neanche introducendo il reato di rivolta: si deve effettuare una riforma di sistema, con l’imposizione ai direttori dei penitenziari di linee guida che perseguano un graduale e non traumatico reinserimento dei detenuti all’interno della società. Quindi si accolga pure la task force ma si auspichi anche una coerenza di sistema, senza farsi distrarre da politiche populiste.

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