Il settore del private equity è a una svolta, il prossimo decennio sarà caratterizzato da una maggior selettività sugli investimenti e dalla necessità di affinare le capacità di fundraising. Diventa sempre più importante lavorare sulla crescita dei margini delle aziende in portafoglio. E, in questo contesto, l’Italia può giocare la partita attirando capitali internazionali e convogliandoli verso quello che resta il target preferito degli investitori, ovvero l’industria. Ma anche verso i settori che, in base al Global Private Equity Report 2025 di Bain & Company, presentano il maggior progresso in termini percentuali rispetto agli anni passati, come l’energia. Al momento, i PE locali che operano sul mercato italiano raccolgono per lo più capitali a livello nazionale e, dato positivo, li reinvestono all’interno dei confini. «Ma fanno raccolta anche all’estero. Ci sono già investitori internazionali che danno capitali ai fondi locali italiani, perché sanno essere specializzati sul mercato italiano» segnala Sergio Iardella, senior partner e nuovo responsabile italiano Private Equity del colosso della consulenza.
Al tempo stesso, anche i grandi fondi internazionali raccolgono capitali che poi per le operazioni in Italia contribuiscono a portare investimenti e sviluppo. Da questo punto di vista sia i grandi fondi internazionali che quelli più locali hanno il ruolo molto positivo di portare capitali privati per lo sviluppo delle aziende italiane. E’ un trend su cui puntare anche in considerazione della svolta che sta vivendo l’intera industria del private equity. Le exit, pur in aumento, non sono sufficienti in questo momento a garantire un’adeguata liquidità e restituzione dei capitali agli investitori. Negli ultimi anni, i fondi stanno investendo più soldi di quanti ne distribuiscano, e questo crea un problema di liquidità. «Una conseguenza è che impiegano molto più tempo del solito a fare la raccolta dei capitali», spiega Iardella. Per gli anni a venire, la società di consulenza strategica guidata da Christophe De Vusser a livello globale vede un mercato che diventerà sempre più selettivo, obbligando i player a posizionarsi in modo preciso e a raggiungere dimensioni adeguate. Oppure a fare partnership.
L’accesso al mercato dei capitali è uno dei tradizionali punti deboli dell’ambiente imprenditoriale italiano, e quindi in casa la sfida è doppia. Il PE rappresenta un’opportunità per il salto in avanti a cui sono chiamate la manifattura, in crisi da almeno due anni, il Made in Italy, alle prese con la sfida della transizione digitale e dell’intelligenza artificiale, le imprese attive nei mercati dell’energia e delle risorse naturali, che competono sul nuovo mercato della Transizione energetica e sostenibile alimentata anche dalle politiche europee. E, perché no, il settore tecnologico, che invece resta sotto-rappresentato nelle scelte di investimento attuali del PE in Italia rispetto a quanto non succeda in Europa e nel mondo. Fra i punti di forza dell’ambiente produttivo italiano dal punto di vista dei potenziali investitori, ne evidenziamo due. Il primo riguarda l’industria. Pur con una flessione rispetto al 2023, si conferma il settore nel quale si concentra il maggior numero di deal, con una quota del 32%. E questo primato è una peculiarità italiana. Il secondo invece è il tema dell’energia. «L’interesse per il settore è alto, nella consapevolezza che la transizione energetica sia un trend inevitabile». Si tratta del segmento con la crescita più accentuata nel 2024, +75%, pur rappresentando ancora una quota contenuta all’8 sul totale dei deal.
Approfondiamo tutti gli elementi contenuti nel Global Private Equity Report 2025 di Bain & Company, con l’aiuto del nuovo responsabile italiano del PE, Sergio Iardella. Anno su anno, il 2024 per il private equity è stato positivo. Sono cresciuti i deal, +37% in valore a 602 miliardi di dollari, e le exit, +34% a 468 miliardi. In calo invece il fundraising, -23% a 401 miliardi di dollari.
I buyout tornano a crescere, ma i gestori temono più che in passato la congiuntura internazionale. Prevalgono le operazioni nel settore tecnologico, ma l’industria e l’energia crescono di più
I buyout riprendono dopo due anni di decisa flessione. Con la curva che torna in positivo, i livelli si assestano sopra i valori precedenti al record del 2021. La ripartizione geografica ripercorre l’andamento degli anni recenti, il Nord America è l’area in cui si concentra il maggior numero di operazioni seguita dall’Europa che però aumenta la propria quota e, dato ancor più positivo, ha ritorni particolarmente buoni sul capitale investito. Il 2025 è visto in ulteriore miglioramento, anche se ci sono elementi di imprevedibilità legati al contesto macroeconomico: «i tassi sono stabilizzati e la previsione è che possano restare tali, ma c’è il nodo dei dazi di cui ancora è difficile prevedere l’impatto». Emblematicamente, nella scala delle più rilevanti sfide per gestori dei fondi e investitori, «gli elementi macro sono al terzo e quarto posto, fino a qualche anno fa erano in fondo alle preoccupazioni».
Il settore tecnologico si conferma il più attrattivo, anche se non cresce in modo rilevante rispetto al 2023: il progresso del 31% è uno dei dati meno consistenti registrati. Fra i segmenti che hanno le più significative quote di mercato, gli incrementi più importanti riguardano l’industria, +81%, e i servizi finanziari, +92%. Segue l’energia con un aumento del 48%. Guardando invece ai settori con un peso specifico inferiore, e nei quali quindi bastano pochi deal per fare la differenza, salgono molto media & entertainment, +111%, e soprattutto il settore pubblico, +491%. La tech share nelle singole operazioni scende leggermente al 33%, dal 35% del 2023, ma resta superiore a quella delle annualità precedenti.
L’Europa, in linea con l’andamento globale, vede l’aumento dei deal, +54%, a 212 miliardi di dollari, e delle exit, +28%. E’ invece meno evidente che nel resto dell mondo la flessione del fundraising, limitata a 2%, che si confronta con il -23% internazionale. Anche qui il settore tecnologico mantiene la quota più rilevante ma cresce meno degli altri segmenti: 48%, contro un balzo del 212% di energia e utility, e boom del settore pubblico, che ha decuplicato il valore dei deal, e di quello finanziario, aumentato di 20 volte.
In Italia la manifattura si conferma il primo settore di investimento, con buoni dati in termini di crescita media dell’ebitda delle imprese in portafoglio. Crescere l’interesse sull’energy
E siamo all’Italia. La crescita dei deal è decisamente più moderata rispetto al trend globale ed europeo. Le operazioni nel 2024 sono state 423, un leggero incremento rispetto ai 406 dell’anno precedente. Nel 51% si tratta di add-on, quindi di operazioni che tendenzialmente hanno l’obiettivo di far crescere un’azienda già in portafoglio. Gli investimenti diretti sono stati 207, in aumento dell’1% sull’anno precedente. La specificità italiana continua ad essere il mondo industriale, dal packaging al machinery. Rappresenta il 32% delle operazioni, anche se nel 2024 la quota si è ridotta rispetto agli anni scorsi. «Resta comunque un settore in cui ci sono tante realtà che nelle rispettive nicchie rappresentano eccellenze internazionali. I dati relativi all’andamento delle aziende italiane in portafoglio dei fondi evidenzia che c’è un lavoro di ricerca molto orientato a selezionare realtà che possano crescere. E l’industria italiana è ricca di imprese interessanti». I numeri a cui Iardella si riferisce sono i seguenti: attualmente nel portafoglio dei fondi ci sono circa 1000 imprese italiane. Una mappatura di 950 di queste imprese, vede un ebitda medio di 24 milioni di euro, e una crescita media dei ricavi del 9% e dei margini, sempre in termini di ebitda, pari al 13%. L’industria ha una concentrazione superiore alla media di imprese nella fascia di Ebitda fra 10 e 30 milioni di euro, ed è fra i settori con meno imprese nella fascia sotto i 10 milioni di euro. Ci sono poche realtà con margini sopra i 30 milioni di euro.
I due comparti che, pur avendo al momento quote relativamente basse rispetto al numero totale di deal, segnano una più rapida crescita sono l’energia e la finanza. L’energy ha anche i miglior numeri in termini di Ebitda medio, secondo solo alle infrastrutture: con margini sotto i 5 milioni c’è il 47% delle imprese, percentuale analoga a quella della manifattura. Ma il 48% ha invece un ebitda sopra i 10 milioni, e il 33% sopra i 30 milioni. Stiamo comunque parlando di un numero relativamente piccolo di operazioni, il settore conta l’8% sul totale degli investimenti diretti, contro il 32% dell’industria. L’energia comunque è uno dei macrotemi del 2024, la volontà di investire nel settore è molto forte, anche per il grande cambiamento in atto legato alla svolta verso le rinnovabili. In definitiva, «l’Italia è un mercato resiliente, il 2025 può segnare una crescita moderata sia nel numero delle operazioni sia sul valore. Spesso l’ingresso di un private equity consente alle aziende italiane di portare l’impresa a una dimensione internazionale, ora però è fondamentale lavorare sull’espansione dei margini. Che non vuol dire tagliare i costi in modo lineare, ma selezionare quelli improduttivi e trovare forme di organizzazione e lavoro più efficienti facendo leva anche sulla tecnologia».
Exit in aumento sul 2023, ma insufficiente a garantire un buon ritorno ai finanziatori, fundraising sempre più difficile
In Italia come nel resto del mondo c’è il tema delle exit. Ci sono stati 1600 deal in dieci anni, e oggi è pari a 1200 il numero di aziende in portafoglio. Le exit sono state nel 10-15% dei casi secondary buyout oppure vendite verso partner strategici, mentre è marginale il numero delle Ipo, sotto il 5%. Come detto, in realtà il 2024 ha visto una ripresa del numero delle exit, sia a livello global che in Europa. Ma i realizzi non riescono ancora a garantire un’adeguata restituzione del capitale investito. Il contesto delle exit resta la prima preoccupazione sia per i gestori dei fondi sia per i limited partners, i finanziatori. Ci sono alcuni dati emblematici: le aziende investite restano in pancia ai fondi più a lungo rispetto agli anni d’oro della scorsa decade. In media 6 anni e un mese, un dato migliore di quello 2023 (6,6), ma superiore a quello di tutti gli anni precedenti. Gli asset under management valgono 4,7 triliardi di dollari, ma la percentuale restituita agli investitori è all’11%, uno dei dati più bassi di sempre. Il motivo è la difficoltà di sostenere un tasso di uscita valido.
Il dry powder, ovvero le risorse in mano ai fondi che devono ancora essere investite, è a quota 1200 miliardi di dollari. «In qualche modo, questa è una garanzia sul fatto che si faranno ancora deal negli anni a venire. Ma significa anche che è difficile investire, quindi il fatto che questo numero cresca non è sicuramente una buona notizia». In Europa il dato è invece in discesa, a 290 miliardi, e questo è invece un elemento positivo, anche se su un orizzonte temporale più lungo c’è una crescita del 7%. Le difficoltà di identificare aziende su cui investire e di effettuare exit soddisfacenti rallentano il ritorno economico per gli investitori. I fondi attualmente distribuiscono solo il 10% del Nav, il valore netto degli asset, e questo significa che stanno restituendo con buoni ritorni ma sempre più lentamente il capitale investito. Questo elemento rende difficile la raccolta di nuovi capitali, ovvero il fundraising.
La svolta del private equity, ci vogliono sempre più figura professionali dedicate al fundraising e selettività nella scelta degli investimenti: i fondi devono concentrarsi su nuove strategie
«Il 2025 è visto in miglioramento, sia come crescita, sia come fundraising» segnala Iardella che però aggiunge: «c’è un cambiamento abbastanza strutturale del settore. Nei 30 anni precedenti, al netto dei periodi di crisi macroeconomica, la crescita è stata relativamente scontata, ora invece la sfida diventa più complessa. Le ricette passate non necessariamente funzionano e funzioneranno, diventa sempre più importante generare ritorni. Anche per fare fundraising». In prospettiva, c’è un aumento della raccolta che arriverà dai fondi sovrani, un trend guidato dal Middle East, e dagli investitori individuali. «Fino a qualche anno fa questo era un mondo che quasi non compariva, mentre nel prossimo decennio rappresenterà il 25% della crescita del fundraising. Per fare raccolta su investitori individuali ci vogliono però team dedicati di dimensioni adeguate, e di conseguenza i grandi fondi riescono a farlo meglio. Esistono anche piccoli fondi che nascono con la vocazione di raccogliere solo sul segmento individual, ma i fondi di media dimensione in generale fanno più fatica».
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