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L’Italia non è un Paese per imprenditori • CONSULENTE FINANZIARIO


In Italia, avviare e far crescere un’impresa è una sfida che spesso sconfina nell’impresa titanica. L’ecosistema imprenditoriale del Paese presenta criticità strutturali e culturali che scoraggiano l’iniziativa privata e rendono difficile la sopravvivenza, prima ancora che il successo, di chi sceglie di fare impresa.

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Le ragioni di questa difficoltà sono molteplici e stratificate, radicate in una burocrazia opprimente, in un sistema fiscale penalizzante, in un accesso al credito limitato e in una cultura spesso refrattaria al rischio. Chi decide di avviare un’attività economica in Italia si trova a navigare tra ostacoli normativi, resistenze culturali e vincoli economici che in altri Paesi europei sono stati in parte superati.

La burocrazia come zavorra

L’iter necessario per costituire una società in Italia è ancora tra i più lunghi e costosi d’Europa. Secondo il report Doing Business della Banca Mondiale (dati 2020, ultima edizione prima dell’interruzione), l’Italia si collocava al 58° posto su 190 Paesi nella classifica generale, con performance particolarmente deludenti nella voce “Starting a Business”. Per avviare un’impresa servono mediamente sette procedure e almeno 12 giorni, con costi amministrativi che superano i 4.000 euro se si considera anche la parcella del notaio, obbligatoria per alcuni tipi di società.

L’imprenditore italiano si trova spesso a dover dedicare più tempo alla gestione delle pratiche burocratiche che allo sviluppo del proprio prodotto o servizio. Le autorizzazioni, le licenze, gli adempimenti sanitari, ambientali e fiscali rappresentano una mole imponente di lavoro che grava in modo sproporzionato sulle micro e piccole imprese, che costituiscono oltre il 90% del tessuto produttivo italiano.

Un fisco che punisce chi produce

La pressione fiscale sulle imprese italiane è tra le più alte d’Europa. Secondo i dati OCSE, il total tax rate per un’impresa in Italia si aggira attorno al 59%, includendo imposte sul reddito, contributi previdenziali, imposte regionali e locali. Questo significa che, su 100 euro di profitto lordo, quasi 60 vengono assorbiti dallo Stato.

La complessità del sistema tributario non è solo una questione di aliquote. Esiste anche un problema di incertezza normativa e di instabilità del quadro fiscale, con cambiamenti frequenti che rendono difficile la pianificazione strategica. I continui interventi sul regime delle detrazioni, sugli incentivi e sulle aliquote alimentano un clima di insicurezza che disincentiva l’investimento a lungo termine.

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Il paradosso delle partite IVA

Anche i lavoratori autonomi e i piccoli professionisti, spesso costretti a “mascherare” un’attività imprenditoriale per evitare la complessità della burocrazia societaria, si scontrano con un sistema fiscale che li tratta con diffidenza. Le partite IVA, in particolare quelle in regime forfettario, sono frequentemente oggetto di riforme restrittive che ne riducono la convenienza, con un impatto negativo soprattutto sui giovani e sulle donne che avviano attività individuali.

L’accesso al credito resta un ostacolo

In un Paese in cui l’80% del finanziamento alle imprese proviene ancora dal canale bancario, l’accesso al credito è un altro collo di bottiglia che penalizza soprattutto le realtà più piccole. Le startup e le PMI innovative faticano a ottenere finanziamenti senza garanzie personali, spesso precluse ai giovani imprenditori o a chi non ha un patrimonio familiare alle spalle.

Secondo i dati di Bankitalia, oltre il 20% delle richieste di credito da parte delle microimprese viene rifiutato. Le banche tendono a privilegiare clienti consolidati, con bilanci solidi e storicità creditizia, escludendo di fatto chi intende avviare un nuovo progetto. Gli strumenti alternativi, come il venture capital, il private equity o il crowdfunding, sono ancora marginali rispetto alla media europea.

Cultura del fallimento: uno stigma sociale

A differenza di quanto avviene in Paesi anglosassoni, in Italia il fallimento imprenditoriale è vissuto come una colpa, più che come una tappa fisiologica del processo economico. La cultura nazionale tende a premiare la stabilità e il posto fisso, mentre guarda con sospetto a chi rischia capitali propri per avviare un’attività.

Questa diffidenza si riflette anche nel diritto fallimentare, storicamente punitivo, che solo di recente ha visto riforme volte a favorire il “fresh start”. Tuttavia, il retaggio culturale rimane: chi ha avuto un insuccesso difficilmente riesce a ottenere fiducia da investitori, banche e persino clienti in una seconda occasione.

L’inefficienza della giustizia civile

Uno dei principali fattori di rischio percepito dagli investitori, italiani e stranieri, è la lentezza della giustizia civile. Secondo il 2023 EU Justice Scoreboard, in Italia servono in media 880 giorni per risolvere un contenzioso commerciale in primo grado, contro una media UE di circa 300 giorni. Questa inefficienza ha un impatto diretto sulla certezza del diritto e sulla tutela dei contratti.

Un sistema giudiziario lento scoraggia l’attività d’impresa, perché aumenta i costi e i tempi per la risoluzione delle controversie. Gli imprenditori sanno che, in caso di mancato pagamento o contenzioso con un fornitore, non potranno contare su una risposta rapida ed efficace dallo Stato.

Il peso della politica e della burocrazia locale

Anche il rapporto con la pubblica amministrazione locale è spesso fonte di frustrazione per chi fa impresa. Le normative regionali e comunali variano da territorio a territorio, creando una frammentazione che rende difficile per l’imprenditore pianificare investimenti su scala nazionale. L’ottenimento di permessi edilizi o autorizzazioni ambientali può richiedere mesi, se non anni, con procedure non standardizzate e dipendenti dalla discrezionalità degli uffici.

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Il risultato è che molte imprese rinunciano ad aprire nuovi stabilimenti o sedi operative, preferendo altri Paesi dove il dialogo con l’amministrazione è più snello e prevedibile.

Giovani e imprenditoria: un binomio difficile

In un Paese che soffre di uno dei più alti tassi di disoccupazione giovanile in Europa (24,1% secondo Eurostat, dati aggiornati a maggio 2025), l’autoimprenditorialità dovrebbe rappresentare una via di riscatto. Eppure, i giovani italiani sono tra i meno propensi a fare impresa. Solo il 6,4% dei giovani under 30 è coinvolto in attività imprenditoriali, contro una media europea del 10,2%.

Le ragioni vanno cercate nell’assenza di un’educazione imprenditoriale nei percorsi scolastici, nella mancanza di reti di supporto (mentoring, incubatori, coworking) e nella scarsa disponibilità di capitale iniziale. Le politiche pubbliche, pur presenti sulla carta, spesso si traducono in bandi complessi e inaccessibili alla maggior parte dei potenziali beneficiari.

La fuga dei cervelli e del capitale umano

Il contesto poco favorevole all’impresa spinge ogni anno migliaia di giovani laureati e professionisti qualificati a cercare fortuna all’estero. Secondo l’Istat, nel 2023 oltre 157.000 italiani hanno lasciato il Paese, in gran parte per motivi legati al lavoro e alla carriera.

Questa emorragia di capitale umano rappresenta una perdita incalcolabile per il sistema produttivo. Molti di questi espatriati avrebbero potuto diventare imprenditori di successo in patria, se avessero trovato un ambiente più favorevole all’innovazione e al merito.

Casi virtuosi e tentativi di riforma

Non mancano, nel panorama italiano, esempi virtuosi di startup e PMI che riescono a emergere nonostante le difficoltà. Ecosistemi come quelli di Milano, Bologna, Torino e Trento hanno sviluppato reti di incubatori, acceleratori e fondi pubblici/privati che offrono supporto alle nuove imprese. Tuttavia, si tratta ancora di eccezioni e non della regola.

Anche le politiche governative degli ultimi anni hanno cercato di invertire la rotta. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha previsto fondi per l’imprenditoria giovanile e femminile, incentivi alla digitalizzazione e riforme strutturali della giustizia e della PA. Resta da vedere se questi interventi avranno un impatto duraturo o se si esauriranno con la fine del ciclo di finanziamento europeo.

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Serve un cambio di paradigma

Per trasformare l’Italia in un Paese favorevole all’impresa non basta ridurre qualche imposta o digitalizzare un modulo. Serve un cambio di paradigma culturale, normativo ed educativo. L’imprenditore deve essere riconosciuto come una figura chiave per lo sviluppo economico e sociale, e non come un soggetto da tenere sotto controllo o da penalizzare fiscalmente.

Occorre un’azione coordinata su più fronti:

  • Semplificazione normativa reale, con un taglio netto agli adempimenti inutili

  • Riforma del fisco, con un sistema più equo e prevedibile

  • Accesso al credito facilitato, anche attraverso strumenti alternativi alla banca

  • Educazione imprenditoriale sin dalla scuola secondaria

  • Supporto alle startup attraverso mentoring, voucher e spazi fisici

Solo un Paese che incoraggia chi crea, innova e rischia può ambire a una crescita duratura. Altrimenti, continuerà a perdere talenti, competitività e fiducia nel futuro.



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