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Perché l’Ue ha bisogno di un ventottesimo regime digitale


Appena rientrato da un viaggio istituzionale negli Stati Uniti, l’eurodeputato Brando Benifei – presidente della delegazione del Parlamento Europeo per i rapporti con Washington– porta a Bruxelles un bagaglio carico di spunti, idee e qualche preoccupazione. Il cuore del viaggio è stato la Silicon Valley, meta simbolica ma anche luogo dove si concentrano modelli, contraddizioni e successi dell’innovazione tecnologica americana.

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L’obiettivo del viaggio era più profondo: esplorare il modello di sviluppo tecnologico statunitense, capire cosa può imparare l’Europa e ricucire un rapporto transatlantico segnato negli ultimi anni da dazi, sfiducia reciproca e una narrazione ostile da parte di Washington.

Il viaggio ha incluso tappe significative: Stanford University, acceleratori di start-up, venture capitalist, colossi tecnologici come Apple e PayPal. Ma non solo. Benifei ha voluto anche visitare Innovit, l’acceleratore italiano a San Francisco promosso dal Ministero degli Esteri. «Uno dei temi centrali è stato capire da vicino come funziona il meccanismo di investimento nella tech economy americana», spiega. «L’Europa, da questo punto di vista, sconta una frammentazione che limita la capacità di crescita delle sue start-up».

Ma c’è anche la geopolitica. Secondo Benifei, parte della sua missione è stata contrastare la narrativa tossica anti-europea rilanciata da ambienti vicini all’amministrazione Trump e tuttora presente in alcune frange del dibattito americano. «In questi mesi con molteplici missioni abbiamo costruito relazioni con il nuovo Congresso, con università, imprese e think tank per ribadire che il rapporto transatlantico va salvaguardato. I dazi, il protezionismo e l’idea dell’Ue come avversario sono scelte limitate, che danneggiano anche l’economia statunitense». Non mancano segnali positivi: «Abbiamo trovato interlocutori nel Congresso, anche repubblicani, che vedono nella cooperazione con l’Europa un’opportunità, non un ostacolo», racconta.

Tra gli incontri più curiosi, una riunione avvenuta su una barca attraccata nella baia di San Francisco, sede del Bay Area Council, l’organizzazione che promuove le start-up locali. «È la prima volta che a una riunione politica distribuivano braccialetti anti-nausea all’ingresso», scherza Benifei.

Il confronto con l’ecosistema californiano dell’innovazione ha confermato due elementi: la centralità del talento internazionale e l’integrazione sistemica tra università, capitale privato e grandi aziende. «Università come Stanford sono centri propulsori grazie al flusso continuo di cervelli da tutto il mondo. Ma lì cresce anche la preoccupazione per le politiche migratorie restrittive, che rischiano di rallentare la macchina». E proprio il tema dell’attrazione dei talenti è uno snodo cruciale anche per l’Europa. «Se gli Stati Uniti alzano le barriere, noi dobbiamo fare il contrario: aprire, attrarre, trattenere. Serve una strategia».

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Il cuore del problema, secondo Benifei, è politico. «Tutti gli interlocutori con cui abbiamo parlato, inclusi gli europei che vivono e lavorano lì, hanno posto con forza il tema della debolezza strutturale dell’Unione Europea. Siamo ancora ventisette regimi diversi, con normative, tempi e approcci differenti. Non possiamo competere se non costruiamo un mercato davvero unico anche per l’innovazione».

Una proposta concreta, sostenuta con favore anche nella Silicon Valley, è quella del cosiddetto «ventottesimo regime»: una cornice legale unificata per chi vuole investire o fondare una tech company in Europa, evitando il labirinto dei ventisette ordinamenti nazionali. Una delle idee chiave del Rapporto Letta, che sembra trovare sponde reali anche oltreoceano.

Benifei è stato anche uno dei protagonisti dei negoziati per l’AI Act, la prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale. «Non dobbiamo rinunciare ai nostri principi – protezione dei dati, responsabilità sociale, trasparenza – ma dobbiamo anche semplificare l’applicazione delle regole evitando la frammentazione. Troppe norme comuni finiscono per essere interpretate in modo disomogeneo».

Un altro fronte è quello dell’adozione dell’IA nelle industrie tradizionali. «Serve una strategia per accompagnare le nostre imprese manifatturiere nell’uso dell’intelligenza artificiale. Non basta avere regole: servono politiche industriali attive. Gli Stati Uniti lo stanno facendo, in modo molto coordinato tra pubblico e privato. L’Europa no».

Il viaggio ha rafforzato alcune convinzioni. La prima: serve più accesso al capitale di rischio, anche per le start-up europee. La seconda: bisogna facilitare gli investimenti degli attori istituzionali, senza appesantimenti burocratici. La terza: è arrivato il momento di una governance dell’innovazione che sia davvero europea, non ventisette versioni della stessa ambizione. «Senza un salto politico e culturale, continueremo a creare eccellenze che poi emigrano. E questa – conclude Benifei – è la vera fuga che dobbiamo imparare a fermare».



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