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Agenzia Entrate non può chiedere ciò che già sa: le fatture elettroniche


La Corte Costituzionale con la sentenza  n. 137/2025, è stata chiamata a decidere se una norma fiscale (art. 32, commi 4 e 5 del d.P.R. 600/1973) sia o meno in contrasto con la Costituzione.

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Questa norma dice che se un contribuente non fornisce all’Agenzia delle Entrate i documenti richiesti durante un controllo fiscale, non potrà poi usarli in suo favore nel processo, salvo che dimostri di non aver potuto consegnarli per causa non imputabile a lui (per esempio, per forza maggiore).

Tra i punti più rilevanti per noi: la Corte ha affermato che l’amministrazione Finanziaria non può chiedere al contribuente la esibizione di dati che ha già in suo possesso, come ad esempio le fatture elettroniche.

La sentenza 137 2025 della Corte costituzionale su norma fiscale relativa a omessa presentazione documenti ad Agenzia Entrate

In particolare, la Corte Costituzionale, con la sentenza  n. 137/2025, si è pronunciata sulla legittimità costituzionale sollevata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, sezione 28, dell’art. 32, commi 4 e 5, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Il tema affrontato riguarda la preclusione probatoria conseguente al rifiuto o alla mancata esibizione del contribuente di documenti richiesti dall’Amministrazione finanziaria.

La Corte Costituzionale, pur rigettando la richiesta di declaratoria di incostituzionalità delle norme citate, ne ha aggiornato la interpretazione fornendone una visione restrittiva e comunque coerente con le normative Comunitarie e Nazionali La Corte di cassazione si è mossa su due linee interpretative tra loro correlate. In primo luogo, si è preoccupata di tracciare quali adempimenti sono richiesti a carico dell’amministrazione finanziaria affinché la disposizione possa trovare applicazione senza pregiudicare il diritto di difesa del contribuente. In secondo luogo, ha precisato in quali casi possa dirsi operante la previsione di non imputabilità della mancata esibizione a carico del contribuente.

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Nell’affrontare e motivare il proprio orientamento, la suprema Corte ha privilegiato la interpretazione costituzionalmente orientata delle norme verso una logica tesa a favorire il dialogo anticipato, la cooperazione e l’intesa tra fisco e contribuente, ed ha confermato il principio secondo cui al contribuente non possono essere richiesti elementi informativi che l’amministrazione finanziaria potrebbe ottenere semplicemente interrogando le banche dati, citando come esempio le fatture elettroniche.

Il thema decidendum

L’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce al quarto comma che le «notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta». Il successivo quinto comma prevede che le «cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile».

La Corte di Giustizia Tributaria di Roma ha sottoposto alla Corte Costituzionale la presunta violazione della sopra indicata norma in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, 111, primo comma, della Costituzione, e, per il tramite degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 8, 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, agli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP).

La controversia che ha dato origine alla vicenda è relativa al ricorso contro un avviso di accertamento con il quale l’amministrazione finanziaria aveva accertato, ai sensi degli artt. 67 e 68 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, una plusvalenza imponibile; prima di emettere l’atto impositivo, l’amministrazione finanziaria aveva notificato alla contribuente, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, un invito con il quale le aveva richiesto la documentazione delle spese sostenute che potessero giustificare l’incremento dei valori dei terreni edificabili; non avendo ricevuto la relativa documentazione, aveva «determinato la plusvalenza recuperata in funzione della sola differenza tra i prezzi di vendita e di acquisto». Il contribuente produsse la documentazione nel successivo procedimento contenzioso, ma l’Agenzia delle entrate, eccepì l’inutilizzabilità in giudizio dei documenti prodotti, atteso che, nonostante l’invito rivolto alla contribuente in sede di controllo, la documentazione non era stata esibita o trasmessa e non vi era prova di un impedimento oggettivo e incolpevole che giustificasse la mancata consegna.

La Corte di Giustizia Tributaria di Roma, nel rimettere la questione alla Corte Costituzionale, ha precisato che, “in considerazione della previsione di cui «all’art. 32, co. 3 [recte: quarto comma], d.P.R. 600 del 1973», sarebbe tenuta a dichiarare non utilizzabile la documentazione prodotta dalla contribuente e comprovante le spese incrementative sostenute. Ritiene peraltro che non sarebbe applicabile nel caso di specie la disposizione di cui all’«art. 32, co. 4 [recte: quinto comma], del d.P.R. n. 600 del 1973 [che] permette la non applicazione della misura processuale afflittiva al verificarsi di una causa esimente specifica che abbia impedito al contribuente di adempiere all’onere della presentazione sin dalla fase amministrativa, purché tale causa sia a lui non imputabile». Ciò in quanto dagli atti si evinceva che il contribuente ben avrebbe potuto adempiere, e la circostanza che avesse conferito delega al figlio non sembra una questione esimente”.

Diciamo subito che il difficile compito a cui è stata chiamata la Suprema Corte origina da una norma che – secondo il mio modesto avviso – è ai limiti della sostenibilità logica e costituzionale, non tanto per la sua finalità, quanto per il modo con cui il legislatore ha inteso porre rimedio al problema (comunque esistente), che sta nel bilanciamento tra il rispetto del postulato “nemo tenetur se detegere” e l’esigenza della Pubblica Amministrazione di svolgere la sua attività accertatrice in tempi rapidi. Ciò richiede anche una attenta valutazione della possibile strategia messa in campo dal contribuente di scoprire le sue “carte” nel momento in cui l’Amministrazione Finanziaria potrebbe venirsi a trovare fuori tempo massimo per poter svolgere una ulteriore conseguente attività accertativa.

Quali adempimenti sono richiesti a carico dell’amministrazione finanziaria affinché la disposizione possa trovare applicazione senza pregiudicare il diritto di difesa del contribuente. Le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte

La Corte ha chiarito che l’invito alla esibizione o consegna degli elementi informativi di cui all’art. 32, quarto comma, del d.P.R. n. 660 del 1973, può produrre la preclusione al loro utilizzo in sede processuale solo a condizione che, in sostanza, la richiesta dell’amministrazione finanziaria:

a) sia stata rivolta specificamente al contribuente o a un suo ausiliare, e non a un terzo (Corte di cassazione, sezione tributaria civile, ordinanza 10 febbraio 2021, n. 3254);

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b) sia stata specifica e puntuale, non potendo operare la limitazione innanzi a una generica richiesta di informazioni o documenti (Corte di cassazione, quinta sezione civile, ordinanza 16 giugno 2017, n. 15021), secondo la tecnica della cosiddetta “pesca a strascico”;

c) preveda un congruo termine per rispondere, in relazione alla tipologia di richiesta e in ogni caso non inferiore a quindici giorni, in ossequio al principio di buona fede (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 2 marzo 2023, n. 6275);

d) non riguardi documenti o informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria, trovando applicazione l’art. 6, comma 4, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), per cui «[a]l contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente» (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 9 aprile 2014, n. 8299).

In quali casi opera la previsione di non imputabilità della mancata esibizione a carico del contribuente

La Suprema Corte ha evidenziato che negli orientamenti giurisprudenziali più recenti, superando interpretazioni più risalenti (come la sentenza n. 28049/2009), si è chiarito che l’omissione del contribuente deve essere consapevole e intenzionale, con l’obiettivo di ostacolare l’ispezione dei documenti da parte dell’amministrazione (Cass. n. 16962/2019). In altre parole, non si può imputare al contribuente la mancata esibizione dei documenti quando questa dipende da cause a lui non riconducibili, come la forza maggiore, il comportamento di un terzo o errori del consulente fiscale. Rientrano in queste ipotesi anche i casi in cui la documentazione sia custodita da terzi (Cass. n. 31345/2023; n. 3254/2021; n. 6092/2022).

Questa evoluzione interpretativa ha portato a una maggiore coerenza tra due norme simili, ossia l’art. 32, co. 4, del DPR 600/1973, che riguarda le verifiche “a tavolino” e l’art. 52, co. 5, del DPR 633/1972, che disciplina i controlli “sul posto”.

Entrambe prevedono che i documenti non esibiti volontariamente non possano poi essere usati dal contribuente. E, in entrambi i casi, ciò presuppone un comportamento doloso, cioè intenzionale. Questa armonizzazione è considerata necessaria, perché non sarebbe logico attribuire effetti giuridici diversi a situazioni simili, solo perché svolte con modalità di verifica differenti (in ufficio o presso il contribuente).

L’amministrazione Finanziaria non può chiedere al contribuente la esibizione di dati già in suo possesso: le fatture elettroniche

Un altro aspetto interessante – che in qualche modo trae spunto dalle riflessioni della Suprema Corte – è la presa d’atto che “…  deve anche essere ampliato il ricordato principio, già affermato in nuce dalla Corte di cassazione, per cui non possono essere richiesti documenti o informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria (Cass., n. 8299 del 2014).  In forza dell’evoluzione digitale e normativa che ha condotto alla creazione di nuove banche dati, come quella relativa alle fatture elettroniche, non possono essere richiesti al contribuente elementi informativi che l’amministrazione finanziaria potrebbe ottenere semplicemente interrogandole”.

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Questo aspetto richiede una analisi delle ragioni che hanno indotto il legislatore ad adottare lo specifico provvedimento normativo, al fine anche di valutarne la attualità.

Una delle ragioni che potrebbe aver spinto il legislatore (“analogico”) dell’epoca di emanazione della norma[1], oggi sottoposta al vaglio di costituzionalità, è la possibilità per il contribuente di poter cambiar le carte in tavola ovvero di “valutare” la opportunità della produzione documentale perché ad essa potrebbero anche essere correlate controindicazioni non immediatamente valutabili, o magari valutabili in relazione alla posizione che potrebbe assume l’Ufficio. Si immagini la possibilità (ovviamente con condotte illegali e difficilmente individuabili) di “modificare” il contenuto di una fattura o di un documento di spesa, soprattutto in un contesto storico in cui non c’era alcun controllo di integrità e autenticità dei documenti. Oppure, si pensi alla mancata produzione del libro giornale o di un registro IVA. Oggi, stante la sostanziale cristallizzazione e tracciabilità delle operazioni, i timori che sarebbero potuti nascere nell’era analogica sono inesistenti. E’ anche naturale che occorra distinguere caso da caso. Si pensi a scritture, tardivamente esibite, con moltissime operazioni in contanti e con importi rilevanti, è chiaro che in questo caso verrebbero meno le ragioni per ritenere ammissibile la tardiva produzione .Alla luce del mutato contesto sarebbe opportuno quindi un adeguato aggiornamento delle norme poiché, anche senza addentrarsi della giungla delle ipotesi, è evidente come la possibilità di “cambiare le carte in tavola” sia interamente ridimensionata.

Ciò detto, e ponendo come centro dell’analisi la natura “sanzionatoria” della norma incriminata, salta subito all’occhio come manchi il nesso tra la condotta del contribuente e il principio che il legislatore ha inteso tutelare, espresso dal comma 3-bis dell’articolo 3 del Decreto legislativo 471/1997: “La disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie é ‘ improntata ai principi di proporzionalità e di offensività”. E’ lessicalmente chiaro che il presupposto per la comminazione della sanzione siano quindi, in via fra loro logicamente interdipendente, la offensività, ossia la attitudine della condotta del contribuente ad arrecare un danno all’Erario, e la proporzione tra il danno potenzialmente arrecabile e la entità della sanzione. Il caso esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza che qui si commenta, è emblematico. La questione infatti riguarda la tardiva presentazione di documentazione di spesa che avrebbe potuto ridurre la plusvalenza del contribuente, per cui la non ottemperanza all’invito dell’Ufficio ha di fatto prodotto (o comunque sarebbe stata suscettibile di produrre) un danno non all’Erario ma al contribuente, nei confronti del quale non esistono ragioni per limitare tutele costituzionalmente sancite. Vista da questa angolazione, la norma in esame sembra “non calibrata”, per cui la eventuale eccezione di costituzionalità – semmai – si sarebbe dovuta porre per violazione del citato articolo 3, comma 3-bis, Decreto legislativo 472/1997, che a sua volta trova ispirazione – sia pure indiretta – nella Costituzione.

Un altro interessante passaggio della Corte Costituzionale riguarda il riferimento alla disponibilità della Amministrazione Finanziaria dei documenti di cui è richiesta la esibizione. La Corte afferma “In forza dell’evoluzione digitale e normativa che ha condotto alla creazione di nuove banche dati, come quella relativa alle fatture elettroniche, non possono essere richiesti al contribuente elementi informativi che l’amministrazione finanziaria potrebbe ottenere semplicemente interrogandole.

È ben vero che questa Corte, in altro contesto, ha affermato che un «sistema di fiscalità di massa» poggia «sull’architrave dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della dichiarazione, che costituisce uno degli atti più importanti nell’ambito della disciplina attuativa di tale imposta», per cui l’inosservanza di quest’obbligo incide sull’attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria, che «dovrà invece ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento delle imposte dovute», con «un impegno ben superiore, in termini di risorse umane, rispetto a quello normalmente richiesto per la effettuazione degli altri controlli, e in particolare di quelli automatizzati e formali» (sentenza n. 46 del 2023).

Tuttavia, queste affermazioni, che hanno senso in riferimento alle dichiarazioni fiscali, non giustificano certo che al contribuente vengano richiesti oneri di attivazione (con il potenziale rischio, peraltro, di eventuali errori che determinino poi l’inutilizzabilità delle prove) per fornire elementi informativi di cui l’amministrazione finanziaria potrebbe facilmente disporre.

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Le medesime affermazioni, al contrario, giustificano la norma nella misura in cui la stessa amministrazione finanziaria non potrebbe agevolmente ottenere i dati senza la collaborazione del contribuente, in mancanza della quale si espone, come detto, al rischio di attività di accertamento e contenziose che poi si possono rivelare, al momento della conoscenza di quei dati, inutilmente attivate, dal momento che la presentazione “a sorpresa” del documento favorevole da parte del contribuente conduce all’annullamento, totale o parziale, dell’atto di accertamento.“

Tuttavia la Corte Costituzionale dà per scontata la possibilità che il possesso materiale da parte della Amministrazione Finanziaria delle banche dati equivalga a disponibilità delle informazioni. Ma così non è, considerato che l’utilizzo dei dati in possesso dell’Agenzia delle Entrate è soggetta a regole ben precise.

La prima è quella dettata dall’articolo1, comma 5, bis, del Decreto legislativo 127/2015, che così recita:

I file delle fatture elettroniche acquisiti ai sensi del comma 3 sono memorizzati fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione di riferimento ovvero fino alla definizione di eventuali giudizi, al fine di essere utilizzati:

a) dalla Guardia di finanza nell’assolvimento delle funzioni di polizia economica e finanziaria di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 19 marzo 2001, n. 68;

b) dall’Agenzia delle entrate e dalla Guardia di Finanza per le attività di analisi del rischio e di controllo a fini fiscali.

b-bis) dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli per le attività di vigilanza e di controllo di cui all’articolo 18 del testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, di cui al decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504.”

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Poiché l’utilizzo dei predetti dati è soggetto a misure di garanzia “a tutela dei diritti e delle libertà degli interessati”, il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 433608/2022 ha previsto che:

  • L’Agenzia delle Entrate memorizza i file delle fatture elettroniche fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione di riferimento ovvero fino alla definizione di eventuali giudizi;
  • Le fatture elettroniche sono consultabili e acquisibili dall’Agenzia previa richiesta di esibizione della documentazione secondo le disposizioni normative in vigore, riferiti ai soli periodi oggetto di attività istruttoria; la consultazione e l’acquisizione sono automaticamente inibite al termine della predetta attività istruttoria di cui alle lettere precedenti. I file delle fatture e delle note di variazione sono acquisibili e consultabili in caso di indagini penali ovvero su disposizione dell’Autorità giudiziaria;
  • Al fine di limitare il trattamento dei dati contenuti nei file delle fatture elettroniche emesse nei confronti del consumatore finale, l’accesso ai files delle fatture elettroniche è consentito per controlli fiscali nei confronti del consumatore finale avviati esclusivamente nei casi di attività di verifica della spettanza di detrazioni, deduzioni o agevolazioni fiscali, ovvero nei casi di verifiche puntuali, qualora le stesse siano state poste in essere preliminarmente nei confronti di operatori economici, i cui beni ceduti o servizi prestati oggetto della fattura siano stati acquistati dal predetto consumatore e gli elementi della stessa siano tali da far emergere un rischio di evasione fiscale.
  • Con riferimento ai files delle fatture emesse da titolari di partita IVA che operano nell’ambito del settore legale, gli stessi sono cifrati individualmente e memorizzati in una distinta area di storage. La chiave di cifratura, gestita automaticamente dal sistema, è conservata e protetta in un repository separato dai dati. L’accesso puntuale ai predetti file è consentito solo previa richiesta o autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, o nell’ambito di un procedimento contenzioso di tipo civile, penale, tributario, di cui è parte l’Agenzia, previa richiesta del Giudice.

Da ciò consegue che l’Agenzia delle Entrate ha accesso ai soli “dati IVA”, ossia i dati numerici della fattura con esclusione dei “dati fattura”, ossia la descrizione dei beni o dei servizi che formano oggetto della cessione/prestazione).

In relazione a quanto precede, il possesso delle Banche Dati a cui fa riferimento il Giudice delle Leggi è quindi da prendere con le pinze, considerate le limitazioni sopra indicate. Ma il possesso delle fatture consente alla Agenzia delle Entrate di poter essere certa della completezza dei dati che potrebbero essere esibiti – sia pure tardivamente – dal contribuente[2], ragion per cui la sanzione di inutilizzabilità dei dati a favore del contribuente appare ingiustamente penalizzante, considerato anche che l’articolo 58, comma 1, del decreto Legislativo 546/1992, come novellato dall’articolo 1 del Decreto legislativo del 30/12/2023 n. 220, in vigore dal 4/1/2024, prevede che “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.”

La natura “sanzionatoria” del divieto di produzione documentale

Il cuore della questione sta innanzitutto nell’individuare la natura della norma incriminata, posto che il Giudice delle leggi è stato chiamato a esprimere posizione tra l’interesse dell’Amministrazione finanziaria ad una spedita istruttoria e il diritto del contribuente ad essere inciso dalle imposte in relazione alla sua effettiva capacità contributiva. Che ci troviamo di fronte ad una “sanzione impropria” lo conferma anche la Suprema Corte che così ha affermato: “… deve essere considerata la natura della misura in oggetto, che si configura in termini qualificati dalla dottrina come una “sanzione impropria”. Si tratta di una figura non estranea al diritto tributario, che in alcuni casi colpisce il contribuente che non ha osservato determinate prescrizioni non solo con una sanzione formale (amministrativa o penale) ma anche con una situazione di svantaggio, che può rivestire carattere procedimentale (e/o processuale) o sostanziale”. Da questo corollario consegue che la determinazione della sanzione deve soggiacere innanzitutto ai criteri dettati del comma 3-bis dell’articolo 3 del decreto legislativo 472/1997 (Principi di legalità e proporzionalità), che così recita: “La disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e di offensività”. Un aspetto rilevante della norma è la considerazione secondo cui la presentazione dei documenti favorevoli al contribuente sia suscettibile di determinare un danno erariale. Questa prospettiva appare francamente aberrante, perché se il contribuente ha diritto ad alcune deduzioni sotto forma di spese che riducono la sua base imponibile (quindi, la sua capacità contributiva), il relativo riconoscimento non determina un danno erariale. Se proprio di danno deve parlarsi, casomai sarebbe il mancato riconoscimento di una spesa legittima a determinarlo nei confronti del contribuente. Quindi il comportamento in questione è privo di “offensività”, e il danno indiretto che potrebbe derivare all’Erario è il dispendio di energie e di tempo che l’Amministrazione Finanziaria sottrarrebbe ad altre indagini a causa della condotta non diligente del contribuente; ma in questo caso la sanzione non può essere ragionevolmente determinata in misura pari al risparmio di cui contribuente avrebbe legittimamente potuto fruire se avesse tenuto una condotta diligente.

Come sanzionare allora l’inerzia del contribuente ?

La sentenza della Suprema Corte, a sostegno della sua tesi, si schiera a favore dell’orientamento teso a favorire il dialogo anticipato, la cooperazione e l’intesa tra fisco e contribuente: “si tratta di una prospettiva che è stata rafforzata dalla recente riforma tributaria, che, con il decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 221 (Disposizioni in materia di adempimento collaborativo), ha apportato importanti modifiche al d.lgs. n. 128 del 2015, tra l’altro, ampliando la platea di contribuenti destinatari dell’istituto, implementando il regime premiale loro riservato, introducendo la certificazione del sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale da parte di professionisti indipendenti qualificati, fermi restando i poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria”.

In questo passaggio la Suprema Corte sembra trascurare quanto prima detto in relazione al rispetto del principio secondo cui “nemo tenetur se detegere” che «costituisce un “corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa“, riconosciuto dall’art. 24 Cost. (ordinanze n. 202 del 2004, n. 485 e n. 291 del 2002)» (sentenza n. 84 del 2021), e del giusto processo, senza dimenticare però che la eccessiva dilatazione di questo diritto non può collidere con l’altro fondamento Costituzionale dell’obbligo di contribuire alla spesa pubblica in funzione alla capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione).

Occorre quindi trovare un bilanciamento, rispettoso di tutti i postulati cui si è fatto cenno sopra. Sotto questo profilo appare quindi ingiustificata una sanzione che sia avulsa[3] dai criteri di commisurazione alla offensività e proporzionalità fissati dal citato comma 3-bis dell’articolo 3 del decreto legislativo 472/1997.

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Il compito del giudice delle Leggi sarebbe quindi – qualora adeguatamente compulsato dai giudici di merito – quello di dichiarare la incostituzionalità di una norma sanzionatoria che non risponde ai criteri di offensività e proporzionalità, ed il compito del legislatore sarebbe quello di porre rimedio prevedendo un regime sanzionatorio (pecuniario, avente caratteristiche proprie) fisso o a scaglioni, ovvero determinato in percentuale sulle minori imposte di cui il contribuente beneficerebbe dalla tardiva presentazione dei documenti[4].

Conclusione

Non c’è dubbio che la norma è espressione del tentativo del legislatore di porre rimedio alla incapacità della Amministrazione Finanziaria di colpire in maniera efficace l’evasione fiscale con l’inasprimento delle leggi piuttosto che col miglioramento della qualità della azione amministrativa. Ciò è stato attuato con interventi legislativi che, sia pure non collegati funzionalmente, sembrano essere frutto di un disegno unitario, hanno avuto come caratteristica:

  • La progressiva svalutazione del valore probatorio delle scritture contabili, con manovre di alleggerimento (formale ma non sostanziale) di adempimenti giustificate come “semplificazioni”. La riforma degli anni 70 aveva attribuito un ruolo centrale alle scritture contabili, all’epoca assoggettate a bollatura inizia e vidimazione annuale (che potevano essere disattese o disconosciute solo in casi estremi e ben individuati) conferendo loro pieno valore probatorio anche a favore del contribuente proprio perché la staticità delle registrazioni era considerata prova di fedeltà. Soppressi gli obblighi di vidimazione e bollatura, dobbiamo comunque prendere atto che il contenuto delle scritture contabili oggi è reso di fatto statico dal contesto tecnologico: le transazioni finanziarie avvengono nella generalità dei casi tramite l’intervento di intermediari bancari, le fatture elettroniche sono detenute dall’Agenzia delle Entrate, i versamenti dei tributi sono effettuati in tempo reale e tracciabile, gli stipendi e i contributi sono pagati in maniera tracciabile, i contratti sono registrati e disponibili nel sito dell’Agenzia delle Entrate, i bilanci depositati presso il registro delle imprese, e così via; quindi, la “evoluzione” normativa ha compresso i diritti del contribuente;
  • La pervicace tendenza del legislatore di volere a tutti i costi determinare la “normalità” dei risultati economici delle imprese e dei lavoratori autonomi, al punto da chiamarla “affidabilità”[5], accompagnata dalla tendenza progressiva di attribuire agli indici un valore ben più alto di quello che essi possano – eventualmente – esprimere. Un imprenditore (o un libero professionista) che non produce ricavi e redditi “normali” può essere chiamato a dimostrare il perché della sua anormalità[6], come se la capacità sua e dei suoi collaboratori fosse qualcosa di standard e non, invece, una dote assolutamente personale, quindi estremamente variabile e, in ogni caso, non misurabile;
  • Un meccanismo di tutela giurisdizionale affidato alle Corti di Giustizia Tributaria non adeguatamente sincronizzate con le esigenze del contribuente, grazie ad una norma[7] che, oltre al fumus boni juris richiede anche la prova, spesso impossibile, che il pagamento richiesto al contribuente[8] sia suscettibile di arrecare al contribuente un “danno grave ed irreparabile”. Appare singolare che uno stato che si definisce “di diritto” possa aver coniato una legge che ammette implicitamente – a contrariis – che il danno “riparabile” sia un danno giusto, che il contribuente può e deve subire perché lo impone la ragion di Stato. Potrebbe infatti verificarsi il caso che un contribuente sia tenuto, in pendenza di giudizio, al pagamento di somme non dovute, risultanti da atti della amministrazione finanziaria impugnati, e che il pagamento delle predette somme possa risultare solo ex post dannoso, magari a seguito di un evento imprevisto che avrebbe richiesto prontezza finanziaria.

In conclusione, la Corte ha fatto quanto nelle sue possibilità per dare – giustamente – una interpretazione restrittiva ed equilibrata della norma, palesemente nata pro-fisco, ma il legislatore dovrebbe fare la sua parte per bilanciare le norme e renderle più eque, anche considerando che mentre gli obblighi e i doveri dei contribuenti diventano sempre più pressanti e certi, altrettanto non può dirsi per gli obblighi di efficienza e di efficacia degli Uffici della Amministrane Finanziaria che, in molti casi, non ottemperano con prontezza e adeguata preparazione alle istanze dei contribuenti[9].

Ma i problemi sopra segnalati non sembrano essere all’ordine del giorno né del legislatore né, ahimè, dei contribuenti e delle categorie professionali che li rappresentano.

Note


[1] Entrata in vigore il 18/02/1999 con la modifica dell’articolo 32 ad opera della Legge n. 28, articolo 25

[2] Questo è verificabile perché le ricevute delle fatture elettroniche contengono l’impronta informatica, chiamata hash, delle fatture elettroniche ricevute, per cui l’Agenzia è in condizione di verificare l’integrità e l’autenticità del file esibito.

[3] Anzi direi contraria, posto che, come sopra detto, la sanzione così determinata sarebbe direttamente proporzionale al danno subìto dal contribuente e, quindi, inversamente proporzionale al danno subìto dall’Erario.

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[4] Una ipotesi potrebbe essere quella della previsione di una sanzione calcolata in percentuale alla minore imposte dovute dal contribuente per effetto della tardiva presentazione dei documenti – salvo i casi di omissione dolosa – in modo da considerare la sanzione come il ristoro per la Amministrazione Finanziaria del disagio subito dal ritardo.

[5] Avere introdotto gli I.S.A. (acronimo di Indici Sintetici di Affidabilità) è una mortificazione che nessuno ha avuto il coraggio di contestare. E’ come se un imprenditore che decidesse di guadagnare meno pur di mandare avanti una azienda e remunerare i fattori produttivi (dipendenti in testa) pur sacrificando tempo e danaro fosse per legge inaffidabile, francamente mi sembra al limite della civiltà.

[6] Essendo di fatto costretto ad una probatio diabolica, impossibile.

[7] Vedi articolo 47 del decreto legislativo 546/1992.

[8] Altra ciliegina sulla torta, la progressiva espansione della riscossione frazionata o anticipata in pendenza di giudizio

[9] Che tra l’altro sono sempre quantitativamente maggiori a causa della eccessiva fiducia attribuita dal legislatore ai “controlli automatici”, anch’essi non sempre perfetti ed efficaci



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