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Dal Superbonus al Jobs Act, le leggi scritte male ci costano il 5% del Pil


L’analisi di oltre 75.000 testi normativi mostra risultati impietosi: l’85% delle frasi supera la soglia delle 25 parole. E ogni cento parole ci sono in media quattro rinvii ad altre leggi. Un “labirinto” normativo che disorienta persino i giudici, figuriamoci i cittadini. L’incertezza normativa sottrae ai conti pubblici 110 miliardi all’anno

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Se le leggi italiane fossero scritte con la stessa limpidezza dei primi articoli della Costituzione, il Prodotto interno lordo aumenterebbe di quasi il 5%, circa 110 miliardi di euro in più all’anno. Non è una provocazione retorica ma la stima di un’analisi rigorosa firmata da Tommaso Giommoni, Luigi Guiso, Claudio Michelacci e Massimo Morelli, pubblicata su lavoce.info.

Dietro questa cifra c’è un problema strutturale: le leggi italiane sono troppo lunghe, complesse e piene di rimandi. L’85% delle frasi supera le 25 parole – soglia oltre la quale la comprensibilità crolla – e in media ogni cento parole si incontrano più di quattro richiami ad altri testi normativi. Una selva normativa che produce incertezza giuridica, penalizza investimenti, scoraggia le assunzioni e moltiplica i contenziosi. E non è solo un problema di tecnica: è anche una questione politica. Secondo lo studio la qualità della legislazione si è progressivamente degradata negli ultimi trent’anni, con la Seconda Repubblica che ha accelerato la produzione di norme emergenziali, spesso scritte senza analisi d’impatto e senza una visione sistemica.

Superbonus, Jobs Act e condoni

Trovare esempi non è difficile. L’articolo 119 del decreto Rilancio (Dl 34/2020) che ha istituito il Superbonus 110% è un caso emblematico. La sua evoluzione è stata un susseguirsi di modifiche, proroghe, restrizioni, blocchi e contro-blocchi. La legge ha prodotto costi diretti stimati in oltre 122,6 miliardi di euro di spesa lorda per lo Stato, con un costo netto superiore ai 100 miliardi secondo Cgia. A cui si aggiungono 15 miliardi di frodi generate da una normativa opaca e controlli tardivi.

Le norme scritte male non sono solo costose, sono anche fragili. Il Dl 157/2021, “Decreto Antifrode”, fu varato in emergenza per tappare le falle originarie. Il risultato? Una giungla normativa che ha bloccato la cessione dei crediti, generato un boom inflazionistico (+130% per l’acciaio), ha spinto aziende verso la crisi di liquidità e ha alimentato il contenzioso.

Il lecreto legislativo 23/2015, fulcro del Jobs Act, fu presentato addirittura come semplificazione del diritto del lavoro. Ma la sua struttura – centrata su indennità predeterminate – è stata smontata dalla Corte Costituzionale in almeno tre sentenze (n. 194/2018, 150/2020, 22/2024), che ne hanno dichiarato l’illegittimità per eccesso di delega e violazione del principio di uguaglianza.

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Il risultato? Un quadro giuridico frammentato, dove imprese e lavoratori si muovono a tentoni. I costi in questo caso non sono immediatamente visibili nei bilanci pubblici ma si riflettono in più contenziosi, meno assunzioni e pianificazione difficile per le imprese.

I tre condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003 sono invece esempi di leggi che addirittura incentivano l’illegalità. Secondo Legambiente l’aspettativa di nuovi condoni alimenta l’abusivismo edilizio e il “ciclo del cemento” illegale, stimato in 2 miliardi di euro annui. Le leggi hanno generato un enorme carico amministrativo, una perdita sistemica di oneri di urbanizzazione e un aumento del rischio idrogeologico e ambientale. Alcune pratiche sono ancora pendenti dopo vent’anni, con costi continui per i comuni.

Incertezza normativa

Lo studio sottolinea anche come nei casi fondati su leggi scritte male, la probabilità che la Cassazione annulli le sentenze dei tribunali inferiori sale dal 30% al 36%, segno che l’ambiguità normativa genera interpretazioni divergenti. A Biella e L’Aquila i ribaltamenti sono più frequenti; a Tortona e Rovigo i tribunali sono più allineati alla suprema corte. In questo contesto, la giustizia dipende dalla geografia più che dalla legge, e l’incertezza legale si trasmette inevitabilmente all’economia.

Nel 2012 una riforma giudiziaria ha riassegnato molte imprese a nuove giurisdizioni. Lo shock è stato analizzato dallo studio di Giommoni, Guiso, Michelacci e Morelli che ha concluso: un aumento dell’incertezza normativa riduce la crescita annua delle imprese dell’1,2% e gli investimenti dell’1,3%.

Lo studio suggerisce che basterebbe adottare la chiarezza dei primi articoli della Costituzione per recuperare 110 miliardi di Pil all’anno. Ma l’ipotesi non è solo teorica: è calcolata attraverso l’analisi di 75.000 leggi italiane e oltre 620.000 sentenze della Cassazione. Ed è confermata da molti casi concreti.

Troppe leggi, troppo mal scritte

Un altro esempio: il decreto sull’Imu agricola del 2014 che definiva l’imponibilità dei terreni in base all’altitudine della casa comunale. Una norma talmente irrazionale da essere sospesa dal Tar del Lazio dopo due settimane. O il decreto “Salva-Banche” del 2015, che azzerò 392 milioni di euro di obbligazioni subordinate senza tutele per i piccoli risparmiatori, costringendo lo Stato a istituire un fondo da 1,575 miliardi per rimborsarli.

Il paradosso è tutto italiano: un legislatore che legifera troppo, troppo in fretta e troppo male, creando incertezza e contenzioso; un sistema giudiziario che prova a correggere, ma a caro prezzo; una pubblica amministrazione che rincorre norme scritte male; cittadini e imprese che pagano, in tempo e denaro, il costo dell’ambiguità. Il risultato è un’economia più debole, uno Stato meno autorevole e una democrazia meno trasparente.

Scrivere meglio non è solo una questione di stile. È una riforma economica, culturale e civile. E costa molto meno di quello che già stiamo pagando.

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