Negli ultimi anni, l’internazionalizzazione delle imprese italiane è evoluta da opzione strategica per pochi a vera e propria necessità sistemica.
Non si tratta più soltanto di cogliere un’opportunità su un mercato estero, ma di rispondere a dinamiche strutturali: pressioni competitive crescenti, saturazione dei mercati interni, esigenza di diversificazione produttiva e accesso diretto a materie prime, manodopera qualificata o nuove tecnologie.
A ciò si aggiungono le trasformazioni delle filiere globali, sempre più integrate e digitalizzate, che impongono alle imprese italiane – anche di dimensione media o piccola – di presidiare fisicamente o contrattualmente i mercati esteri per restare competitive.
In questo scenario, non è più sufficiente esportare: occorre strutturarsi. E ogni forma di insediamento all’estero comporta scelte cruciali in termini giuridici, fiscali e organizzativi.
L’adozione di un determinato modello operativo – che si tratti di
- un semplice ufficio di rappresentanza,
- una stabile organizzazione o di
- una joint venture con partner locali –
incide direttamente sulla configurazione fiscale dell’impresa, sulla distribuzione dei profitti, sulla gestione dei rischi e sulla compliance con le normative tributarie nazionali e internazionali.
È in questo contesto che si inserisce il documento pubblicato nel luglio 2025 dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti, “La fiscalità nell’internazionalizzazione delle imprese”.
Si tratta di un’analisi organica e aggiornata che accompagna l’impresa e i suoi consulenti nel processo di internazionalizzazione, mettendo a fuoco le implicazioni tributarie delle scelte strategiche e offrendo un quadro chiaro delle regole, delle prassi e degli strumenti per operare in contesti cross-border.
Tra i temi cardine trattati spicca la valutazione della forma giuridico-operativa con cui un’impresa decide di insediarsi in un Paese estero.
Ogni opzione presenta vantaggi e limiti, ma soprattutto genera conseguenze precise in termini di fiscalità diretta e indiretta, di adempimenti contabili, di rischio di doppia imposizione e di corretta allocazione dei profitti tra Stati.
Un tema, quindi, che richiede un approccio integrato, informato e fortemente personalizzato.
1) Ufficio di rappresentanza: presidio leggero, attenzione elevata
Tra le soluzioni iniziali più accessibili e meno impegnative sotto il profilo organizzativo e fiscale, l’ufficio di rappresentanza costituisce per molte imprese italiane il primo strumento operativo per sondare un mercato estero.
Si tratta di una struttura “di frontiera”, che consente all’impresa di stabilire una presenza visibile e riconoscibile in un altro Paese, senza tuttavia assumere gli oneri fiscali e formali tipici di un insediamento con autonoma rilevanza tributaria.
La funzione dell’ufficio di rappresentanza è, per sua natura, meramente ausiliaria o preparatoria. Le attività che può svolgere sono generalmente limitate alla raccolta di informazioni, ricerche di mercato, promozione commerciale, pubblicità e supporto alla comunicazione istituzionale.
In altre parole, l’ufficio di rappresentanza non può concludere contratti, effettuare vendite, svolgere attività produttive né incassare pagamenti per conto dell’impresa madre.
Il principio che ne regola l’irrilevanza fiscale è chiaro: assenza di autonomia operativa e di generazione diretta di ricavi.
Da un punto di vista tributario, proprio per il suo carattere non imprenditoriale, l’ufficio di rappresentanza non è soggetto a imposizione nello Stato estero in cui opera.
Non è, infatti, considerato una stabile organizzazione e non è tenuto a presentare dichiarazioni fiscali o a versare imposte locali. In compenso, i costi sostenuti per il suo mantenimento sono normalmente deducibili dalla casa madre italiana, in quanto funzionali allo sviluppo dell’attività d’impresa.
Va tuttavia sottolineato come l’istituzione e la gestione di un ufficio di rappresentanza richiedano particolare rigore.
La sua configurazione “leggera” non deve indurre a sottovalutarne l’impatto potenziale. In particolare, è fondamentale che le funzioni effettivamente svolte all’estero restino all’interno del perimetro consentito. Un’eccessiva autonomia del personale, l’assunzione di compiti operativi o l’avvio di trattative commerciali anche non formalmente concluse potrebbero determinare, in sede di verifica da parte delle autorità fiscali del Paese estero, una riqualificazione dell’ufficio in stabile organizzazione “di fatto”.
Un rischio non teorico, soprattutto se si considera la crescente attenzione delle Amministrazioni finanziarie internazionali a fenomeni di “stabile organizzazione occulta” e l’applicazione sempre più rigorosa del principio della prevalenza della sostanza sulla forma.
Inoltre, la presenza di personale locale o distaccato, anche in assenza di una sede fisica vera e propria, può sollevare problematiche di natura giuslavoristica e previdenziale, obbligando l’impresa italiana ad adempiere agli obblighi contributivi previsti dalla normativa locale.
Per questo motivo, l’ufficio di rappresentanza – pur essendo una soluzione “leggera” dal punto di vista fiscale – richiede una gestione attenta, documentata e coerente con le finalità dichiarate.
La sua efficacia operativa, specie nelle fasi di esplorazione e posizionamento iniziale in un nuovo mercato, è indubbia, ma va impiegato con consapevolezza dei limiti normativi e nel quadro di una strategia ben definita che ne preveda, eventualmente, l’evoluzione verso modelli più strutturati di presenza all’estero.
2) Stabile organizzazione: quando la presenza diventa fiscalmente rilevante
Quando l’impresa decide di intensificare la propria attività in un Paese estero, passando da una fase esplorativa a una presenza più stabile e operativa, entra in gioco il concetto di stabile organizzazione. Si tratta di una soglia giuridico-fiscale ben definita: oltre essa, la mera presenza commerciale si trasforma in soggetto impositivo a sé stante nel territorio estero.
Secondo l’articolo 162 del TUIR e i principi contenuti nei modelli OCSE e ONU, la stabile organizzazione si configura quando un’impresa non residente esercita, in modo continuativo, una parte sostanziale della propria attività imprenditoriale all’estero.
Questo può avvenire attraverso una “sede fissa d’affari” – come uffici, filiali, impianti, cantieri, magazzini, laboratori – oppure tramite soggetti (dipendenti o agenti) che agiscono con poteri abituali di rappresentanza per conto dell’impresa.
La definizione di “sede fissa” non impone necessariamente un diritto formale sul luogo (es. proprietà o locazione): è sufficiente che l’impresa abbia il potere di disporne in modo continuativo (cd. power of disposition test).
Inoltre, la recente evoluzione interpretativa e normativa, in linea con il principio della sostanza economica prevalente sulla forma giuridica, ha ampliato l’ambito applicativo del concetto di stabile organizzazione, includendo anche situazioni in cui non esiste una struttura fissa in senso stretto, ma l’attività estera assume un contenuto economico rilevante e strutturato.
Fiscalmente, la conseguenza principale è che la stabile organizzazione viene tassata nel Paese estero per i redditi prodotti localmente, secondo la disciplina interna vigente in quello Stato.
Tuttavia, tali redditi non restano confinati al sistema fiscale estero: essi devono essere inclusi anche nella base imponibile della casa madre italiana, secondo il principio della tassazione mondiale (worldwide taxation). Per evitare fenomeni di doppia imposizione economica, l’ordinamento italiano consente due alternative:
- la detrazione del credito d’imposta estero ex art. 165 TUIR, calcolata proporzionalmente al reddito tassato all’estero;
- oppure, laddove ne ricorrano i presupposti, l’esenzione integrale del reddito estero tramite il regime della branch exemption ex art. 168-ter TUIR, da esercitare per opzione.
L’identificazione e la corretta gestione di una stabile organizzazione richiedono attenzione costante, non solo in sede di pianificazione ma anche nella fase operativa.
Occorre infatti attribuire alla branch estera un set coerente di funzioni, beni e rischi e predisporre un’adeguata documentazione contabile e fiscale che ne supporti l’autonomia funzionale. Tale documentazione è fondamentale anche per la determinazione del reddito imponibile della branch, da calcolare secondo i criteri del transfer pricing, in modo simile a quanto avviene per le transazioni infragruppo tra soggetti giuridici distinti.
Le linee guida OCSE, aggiornate con il progetto BEPS, richiamano l’importanza di una corretta allocazione dei profitti basata sull’effettiva creazione di valore economico, anziché su schemi formali o artifizi giuridici.
In particolare, l’uso di agenti dipendenti con potere di concludere contratti può far scattare una stabile organizzazione “personale”, anche in assenza di una sede fisica. A maggior ragione, occorre prestare attenzione ai contratti di distribuzione, franchising, supporto tecnico e ai servizi digitali, che possono generare rischi impositivi inattesi.
In sintesi, la stabile organizzazione rappresenta uno strumento essenziale per strutturare una presenza fiscale estera, ma comporta anche responsabilità significative: compliance contabile, trasparenza dei flussi, dialogo con le autorità fiscali di due ordinamenti. In questo contesto, pianificare in modo coerente la governance della struttura estera, definire un perimetro preciso di operatività e tenere traccia delle interazioni economiche tra sede italiana e branch estera diventa una condizione imprescindibile per evitare contenziosi e per operare in modo fiscalmente efficiente e conforme.
3) Le joint venture: un ponte operativo tra strategie comuni e fiscalità condivisa
Nel processo di internazionalizzazione, un’opzione sempre più diffusa – soprattutto quando l’obiettivo è quello di condividere rischi, risorse e know-how con partner locali o internazionali – è la costituzione di una joint venture.
Questo modello collaborativo si colloca a metà strada tra l’investimento diretto e la cooperazione contrattuale e consente di strutturare un presidio estero senza dover necessariamente assumere il controllo pieno o costituire una filiale in senso stretto.
La joint venture può assumere due forme principali, profondamente diverse per natura giuridica e riflessi fiscali.
- La prima è la joint venture societaria, che si concretizza nella costituzione di una nuova entità giuridica, autonoma rispetto alle imprese partecipanti, dotata di propria personalità e soggettività fiscale. In questo caso, la nuova società è disciplinata dal diritto del Paese in cui viene formalmente costituita e, di conseguenza, è soggetta agli obblighi fiscali locali (registrazione, dichiarazione, pagamento delle imposte sul reddito e IVA).
- La seconda forma è la joint venture contrattuale, nella quale le imprese coinvolte stipulano un accordo di collaborazione, senza dar vita a un nuovo soggetto giuridico. Questa forma è generalmente più snella, meno onerosa sotto il profilo burocratico e consente un margine di autonomia maggiore nella definizione di governance, ripartizione dei compiti, investimenti e benefici. Tuttavia, proprio per la sua natura “atipica” – priva di una regolamentazione organica nei principali ordinamenti – richiede particolare attenzione nella redazione del contratto, affinché siano chiaramente definiti i criteri di attribuzione dei proventi, le responsabilità delle parti, le modalità di rendicontazione e i meccanismi di risoluzione delle controversie.
Da un punto di vista fiscale, la differenza tra le due forme è rilevante.
Nella joint venture societaria, il reddito prodotto è assoggettato a tassazione diretta in capo alla nuova entità secondo la legislazione dello Stato estero, mentre gli utili distribuiti alle imprese partecipanti seguiranno le regole previste per i dividendi internazionali, con possibili ritenute alla fonte e necessità di applicare le convenzioni contro le doppie imposizioni.
Nella joint venture contrattuale, invece, i redditi sono normalmente attribuiti “per trasparenza” alle imprese coinvolte, in proporzione alla loro partecipazione economica, con obbligo di dichiarazione nei rispettivi Stati di residenza e gestione della relativa tassazione estera secondo le disposizioni domestiche (ad esempio, mediante credito d’imposta estero o, se applicabile, esenzione).
In entrambi i casi, assumono particolare rilievo alcuni elementi tecnici:
- la qualificazione del soggetto fiscale, ovvero se il reddito estero sia effettivamente riferibile al partecipante italiano o vada ricondotto a una struttura separata;
- l’individuazione del beneficiario effettivo (beneficial owner), fondamentale per determinare la legittima applicazione delle convenzioni internazionali;
- l’eventuale presenza di operazioni infragruppo o tra partecipanti alla joint venture, che rende necessario un presidio in materia di transfer pricing, soprattutto nei casi in cui le attività siano integrate o vi sia condivisione di costi, beni e personale.
Inoltre, nei casi in cui la joint venture implichi la presenza fisica o funzionale in un Paese estero, è necessario valutare il rischio di configurazione di una stabile organizzazione “di fatto” per uno o più partner, con conseguenti obblighi fiscali nello Stato ospitante.
Anche la ripartizione del controllo e dei poteri gestionali tra i partner può influenzare la qualificazione del reddito e la sua imputazione tra le parti.
La joint venture rappresenta dunque uno strumento flessibile, ma giuridicamente e fiscalmente sofisticato, ideale per operazioni complesse, progetti di lungo termine, investimenti infrastrutturali o accordi industriali in mercati non ancora consolidati. Come tale, richiede un impianto contrattuale ben strutturato, una pianificazione fiscale preventiva e una gestione trasparente dei flussi economici, per evitare criticità in sede di verifica o in ambito convenzionale.
4) Uno scenario fiscale in continua evoluzione: nuove sfide e responsabilità
Il quadro fiscale internazionale è oggi attraversato da trasformazioni rapide e profonde, che impongono alle imprese – e ai soggetti che le assistono – un aggiornamento continuo e un approccio multidisciplinare. Le normative nazionali, le prassi interpretative, i trattati internazionali e le direttive europee si intrecciano in un sistema sempre più complesso, dove le scelte strutturali e operative di un’impresa possono avere riflessi fiscali significativi, anche non immediatamente evidenti.
Uno dei campi in cui questa evoluzione è particolarmente evidente è quello del transfer pricing. Le linee guida OCSE e la prassi italiana richiedono oggi una documentazione puntuale e coerente, capace di dimostrare che i prezzi praticati nelle transazioni infragruppo siano in linea con il valore di mercato e che la ripartizione dei profitti rifletta la reale allocazione di funzioni, rischi e beni tra le diverse entità coinvolte.
Le autorità fiscali italiane – al pari di quelle degli altri Paesi – hanno potenziato il proprio livello di controllo, con strumenti di analisi sempre più sofisticati e con una crescente attenzione ai fenomeni di erosione della base imponibile.
Accanto al tema dei prezzi di trasferimento, si colloca la nuova sfida rappresentata dalle disposizioni antiabuso e, in particolare, dal progetto europeo di direttiva “Unshell” (o “ATAD 3”).
Questo intervento mira a contrastare le cosiddette entità prive di sostanza economica, cioè società o veicoli costituiti unicamente per accedere a regimi fiscali più favorevoli, in assenza di reale presenza o attività economica nello Stato di insediamento.
I criteri proposti dall’UE per individuare tali entità si basano su elementi concreti: presenza fisica di uffici e personale, gestione effettiva delle attività, autonomia decisionale. Le imprese dovranno essere in grado di dimostrare, attraverso indicatori oggettivi, che le strutture estere sono genuine e funzionali, e non semplici involucri giuridici.
In parallelo, anche l’Amministrazione finanziaria italiana ha rafforzato il proprio presidio sulle operazioni transfrontaliere, ponendo particolare enfasi sulla coerenza tra la struttura legale dichiarata e l’operatività effettiva rilevabile, sia mediante controlli documentali sia tramite strumenti di cooperazione internazionale. È venuto meno, in altri termini, lo spazio per strutture fittizie o soluzioni formalmente corrette ma prive di sostanza economica.
In questo scenario, il ruolo del professionista non può più essere quello del mero esecutore o compilatore.
Il supporto alla internazionalizzazione richiede una figura strategica, capace di interpretare le esigenze dell’impresa e tradurle in modelli giuridici e fiscali solidi, sostenibili e pienamente compliant con le normative dei vari ordinamenti coinvolti.
Il professionista è chiamato a:
– valutare in modo comparativo le diverse opzioni di insediamento estero (ufficio di rappresentanza, stabile organizzazione, joint venture, società controllata);
– verificare l’effettiva sussistenza dei requisiti per l’accesso ai benefici convenzionali;
– costruire una documentazione solida e trasparente a supporto della policy fiscale adottata;
– prevenire il rischio di doppia imposizione o, peggio, di contenzioso tributario transnazionale;
– assistere l’impresa anche nei rapporti con le autorità fiscali estere, in un’ottica di risk management e dialogo istituzionale.
Il documento pubblicato nel luglio 2025 dal Consiglio Nazionale e dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti, “La fiscalità nell’internazionalizzazione delle imprese”, si inserisce esattamente in questo contesto di crescente complessità e responsabilità. Non si limita a fornire una rassegna normativa, ma offre un quadro operativo e aggiornato che consente di affrontare – con rigore tecnico e visione strategica – le sfide fiscali dell’espansione internazionale. Il valore aggiunto dell’opera risiede nella sua capacità di coniugare approfondimento giuridico, esempi concreti e orientamenti interpretativi, trasformandosi in uno strumento di lavoro essenziale per chi vuole accompagnare le imprese italiane in un percorso di crescita sostenibile e conforme ai nuovi standard globali.
5) Oltre l’espansione, la costruzione di un modello sostenibile
Internazionalizzarsi, oggi, non significa semplicemente esportare beni o servizi oltre i confini nazionali. Significa molto di più: vuole dire ripensare profondamente l’organizzazione aziendale, ridefinire i modelli decisionali, riconfigurare la fiscalità, adattare la governance e costruire relazioni operative con soggetti, mercati e istituzioni che rispondono a logiche diverse da quelle domestiche. L’ingresso in un mercato estero è un salto di paradigma, che richiede visione strategica, pianificazione tecnica e consapevolezza dei rischi sistemici.
Non è sufficiente trasferire uno schema aziendale già rodato all’interno del proprio Paese ma occorre tradurlo, adattarlo, talvolta rifondarlo, tenendo conto delle normative locali, dei trattati internazionali, dei regimi fiscali applicabili e delle aspettative degli stakeholder esteri.
Questo processo impone di integrare competenze fiscali, giuridiche, contrattuali e organizzative in un approccio globale, dove ogni scelta strutturale ha impatti diretti sulla sostenibilità del progetto.
In questo scenario così articolato e in costante evoluzione, il ruolo del consulente – e in particolare del professionista – non è più ancillare, ma strutturale. È chiamato ad agire non solo come esperto tecnico, ma come “architetto” dell’assetto operativo: colui che progetta, calibra e monitora la struttura dell’impresa nel suo impatto fiscale e giuridico transnazionale.
Allo stesso tempo, deve essere garante della compliance, assicurando che ogni passaggio sia coerente con le normative applicabili e minimizzando il rischio di contestazioni e doppia imposizione.
Ma soprattutto, è chiamato a essere interlocutore attivo e consapevole delle nuove sfide globali: digitalizzazione, sostenibilità, fiscalità minima globale, contrasto agli abusi e trasparenza fiscale. Sfide che ridisegnano il perimetro dell’attività economica internazionale e che richiedono una presenza professionale preparata, aggiornata, capace di unire rigore tecnico e visione strategica.
In definitiva, internazionalizzarsi oggi significa costruire un modello operativo efficiente, trasparente e resiliente, in cui la fiscalità non sia un ostacolo da aggirare, ma una leva da governare con intelligenza. E in questo processo, l’apporto di chi possiede le chiavi interpretative del sistema tributario – nazionale e internazionale – rappresenta un fattore critico di successo. Non un semplice supporto, ma un partner di sistema, protagonista di un’impresa che cresce oltreconfine in modo consapevole, conforme e sostenibile.
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