Tra gli impianti di Taranto e i corridoi romani del ministero cresce l’attesa per un passaggio che potrebbe segnare il destino della vecchia acciaieria. Il tempo stringe, le posizioni si irrigidiscono e il tavolo convocato per il 12 agosto si annuncia come l’appuntamento in cui nessuno potrà più sottrarsi alle proprie responsabilità.
Il calendario che pesa come un macigno
Il 12 agosto è stato definito dal ministro Adolfo Urso come il «giorno della verità», una data che catalizza tensioni e speranze. In quell’unica giornata, su iniziativa del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, si succederanno tre round ben distinti: dapprima gli enti locali – Regione Puglia, Provincia di Taranto, i Comuni di Taranto e Statte, nonché l’Autorità portuale – poi i sindacati metalmeccanici e infine le associazioni di impresa e dell’indotto. Ognuno porterà alla luce argomenti che toccano le fibre stesse dell’acciaieria: occupazione, riconversione, sicurezza e tempi di realizzazione. La percezione, fra tutti, è che non ci sia più margine per compromessi al ribasso.
Sullo sfondo, la necessità di una decarbonizzazione che trasformi radicalmente il modello produttivo. Il piano presentato prevede un arco di circa otto anni per abbandonare gli altoforni tradizionali, sostituendoli con linee DRI alimentate a gas naturale e successivamente a idrogeno. Il percorso, però, si intreccia con la disponibilità di risorse, l’indotto da salvaguardare – settecento aziende, secondo stime locali – e le garanzie che il Governo chiede in cambio dei futuri impegni economici. Tutti elementi che rendono l’appuntamento ministeriale un crocevia imprescindibile.
Il veto di Taranto e le reazioni del governo
A sparigliare le carte, la decisione del sindaco Piero Bitetti di non apporre la propria firma all’accordo. La riunione del consiglio comunale fissata per l’11 agosto è stata annullata, con la maggioranza che giudica il testo privo di tutele per la città e invoca una riconversione completa in cinque anni. La presa di posizione ha provocato un’ondata di reazioni: dal ministero filtra irritazione, fonti parlano di gesto «irresponsabile» mentre i sindacati accusano l’amministrazione di mettere a rischio 7.000 posti di lavoro. L’asse Roma-Taranto mostra, ancora una volta, tutte le sue fratture.
Il ministro Urso, ricordando di aver più volte concesso rinvii per favorire il confronto istituzionale, afferma che non esistono più alibi: gli impegni vanno assunti ora, non oltre. In parallelo, le sigle sindacali serrano le fila. Rocco Palombella (Uilm) chiama «coraggio» e «determinazione», mentre Michele De Palma (Fiom) denuncia «l’assenza di senso delle istituzioni». Loro, con Ferdinando Uliano (Fim), hanno già convocato i parlamentari di maggioranza e opposizione per il 29 agosto: un vertice romano in cui, promettono, verrà chiesto uno schieramento netto a difesa dell’occupazione.
Il bando di vendita e le condizioni per il rilancio
Nel frattempo il Mimit ha aggiornato il bando di vendita degli impianti, fissando la scadenza al 15 settembre. Stavolta, nero su bianco, compaiono due punti fermi: la obbligatorietà della transizione verde per il sito di Taranto e la possibilità di costruire un forno elettrico a Genova. Gli aspiranti investitori potranno acquistare l’intero complesso o singoli rami d’azienda, ma verranno privilegiate le proposte capaci di garantire continuità produttiva e salvaguardia occupazionale. Una stretta che mira a scoraggiare shopping industriale e speculazioni.
La tempistica stabilita consente agli operatori di presentare piani industriali coerenti con gli otto anni di decarbonizzazione. Fra i passaggi obbligati, l’installazione di tecnologie ad alte prestazioni ambientali e la definizione di accordi con la rete energetica nazionale per approvvigionare gas e, in prospettiva, idrogeno verde. Il mercato, interessato da tempo alla maxi-fabbrica pugliese, dovrà ora fare i conti con vincoli stringenti: non solo emissioni ridotte, ma anche impegni certi su salari, turni, manutenzioni e formazione del personale.
La questione del rigassificatore e il porto alternativo
Il cuore tecnologico del nuovo impianto, i forni DRI, necessita di una nave rigassificatrice ormeggiata in area portuale per garantire il continuo afflusso di gas. Il tema divide da mesi la comunità: i fautori della soluzione locale la ritengono indispensabile per non disperdere occasioni di sviluppo, gli oppositori temono ricadute ambientali e paesaggistiche. Il ministro ha spesso ribadito che «la scelta spetta a Taranto», ma l’impasse politica ha riaperto scenari alternativi.
Così, prende corpo un piano B: il trasferimento dell’ormeggio a Gioia Tauro. Un comitato tecnico, nominato dopo la visita di Urso al porto calabrese il 4 agosto, sta valutando logistica, costi e fornitura di gas naturale. Entro fine mese è attesa una nuova riunione che dovrà chiarire se la rotta meridionale sia percorribile senza rallentare il cronoprogramma. La scelta dello scalo potrebbe incidere sia sulle tempistiche di avvio degli impianti sia sui livelli occupazionali dell’indotto.
Tra occupazione e industria dell’indotto
Il rifiuto del Comune viene percepito come una minaccia diretta ai posti di lavoro: Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm parlano di «bomba sociale». Gli imprenditori aderenti a Confindustria Taranto, Confapi Taranto e Aigi stimano in 15.000 gli addetti che rischierebbero di essere estromessi dal ciclo produttivo. Il messaggio è perentorio: fermare il piano equivale a compromettere la stabilità economica dell’intera provincia, già provata da anni di incertezze. Una tensione che tiene in scacco famiglie intere, scuole, attività commerciali.
I leader sindacali insistono su un punto: se qualcuno vuole chiudere l’ex Ilva, lo dica ad alta voce e ne risponda pubblicamente. Intanto l’agenda resta fitta: oltre al tavolo del 12 agosto e al summit del 29 agosto, sono previste ulteriori consultazioni con il Governo per misurare gli effetti delle decisioni sugli ammortizzatori sociali. Ogni passo appare intrecciato a doppio filo con il futuro dei contratti di appalto, dei fornitori di servizi e dei progetti industriali – quindici, in totale – che puntano a insediarsi nell’area ionica.
Il bivio dei prossimi giorni
Il confronto fra istituzioni, sindacati e imprese si concentra ora su una domanda essenziale: quale rotta imboccare per evitare che l’acciaieria finisca strangolata dalla propria storia? I tempi tecnici per presentare un nuovo accordo, dentro le scadenze europee sulle emissioni, sono strettissimi. La firma o il rifiuto dell’intesa si riverbereranno su infrastrutture, ambiente e occupazione, definendo il perimetro della città industriale del domani.
Quando il 12 agosto si apriranno le porte del ministero, la partita sarà tutta lì, su quel tavolo. Davanti a Urso verranno depositate scelte che non ammettono scorciatoie. Per i lavoratori, le famiglie e l’intero Mezzogiorno, la posta in gioco non è solo la sopravvivenza di un polo siderurgico: è la prova di quanto la politica sappia, o non sappia, farsi carico di una transizione che promette sviluppo, ma pretende coraggio.
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