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AI, lo tsunami tecnologico che (ri)definisce il futuro


L’avvento dell’AI è una nuova ‘rivoluzione copernicana’, i leader del futuro non dovranno solo imparare a utilizzarla ma anche a metterla al servizio delle sfide del nostro tempo.

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“L’Intelligenza artificiale è la nuova energia elettrica”. Così Andrew Ng, padre di Google Brain e pioniere del machine learning, coglie con lucidità il carattere pervasivo e rivoluzionario dell’AI.

Come l’elettricità a cavallo tra Otto e Novecento, l’intelligenza artificiale promette di stravolgere tutti i campi dell’attività umana, dalla finanza all’industria, dalla sanità alla formazione, fino alla cultura e alla pubblica amministrazione.

Secondo McKinsey, entro cinque anni il 70% delle aziende adotterà l’AI come leva quotidiana per prendere decisioni, automatizzare processi, innovare modelli.

Più della metà delle mansioni lavorative sarà trasformata radicalmente. Un cambiamento enorme, se pensiamo che già oggi il 10% dei lavoratori a livello globale svolge un mestiere che nel 2000 nemmeno esisteva – dal data scientist al web analyst.

Non cambierà solo il nostro rapporto con la tecnologia: cambierà, a monte, il modo in cui pensiamo noi stessi. È la scintilla di una nuova rivoluzione copernicana, che ci invita a ridefinire ciò che significa essere umani in un mondo dove il confine tra uomo e macchina si fa sempre più sottile.

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Stare dentro questo “tsunami tecnologico”, senza farsene travolgere è la sfida cruciale. Governare il cambiamento, piuttosto che subirlo, significa tenere insieme competenze tecniche e visione etica, capacità analitiche e sensibilità umanistica.

Solo così l’AI potrà essere non solo potente, ma anche vettore di giustizia e di equità. E in questo, le università hanno la responsabilità – e l’opportunità – di guidare l’evoluzione.

È da questa consapevolezza che nasce il nuovo dipartimento Luiss ‘AI, Data and Decision Sciences’: un hub interdisciplinare dove le scienze dure dialogano con il pensiero critico, l’innovazione incontra la riflessione e le materie Stem lavorano a stretto contatto con le discipline umanistiche.

Formare una nuova generazione di leader significa molto più che insegnare a sviluppare e utilizzare le nuove tecnologie. Significa formare menti capaci di mettere l’AI al servizio delle grandi sfide del nostro tempo: dalla lotta alla povertà ai cambiamenti climatici, dalla gestione delle pandemie alla costruzione della pace.

L’obiettivo è ambizioso, ma necessario: coniugare il rigore accademico e la concretezza delle scelte pubbliche, offrendo ai decision maker strumenti non solo tecnici, ma anche critici, per orientare l’innovazione verso il bene comune.

All’orizzonte, tuttavia, si profila un duplice paradosso. Il primo è sotto gli occhi di tutti: l’Italia eccelle nella formazione di competenze digitali, quantitative e strategiche – proprio tra le più richieste dalle aziende – ma fatica a trattenerle.

Secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea, i laureati in fuga dall’Italia sono poco meno del 5%. Ma a preoccupare è che la percentuale raddoppi proprio tra i profili Stem, esattamente le figure più richieste dal mercato del lavoro. In altri termini, formiamo i talenti di cui abbiamo bisogno, ma non siamo in grado di offrire loro prospettive all’altezza.

È un cortocircuito che indebolisce il sistema Paese due volte: perdiamo capitale umano prezioso e allarghiamo il mismatch tra domanda e offerta di competenze. Il problema è, dunque, strutturale: è come formare soldati d’élite, addestrati e armati di tutto punto, e poi mandarli a combattere in altri eserciti.

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Il secondo nodo problematico è più silente, ma non per questo di minor importanza. L’universo del digitale, dei dati e dell’innovazione tecnologica continua a parlare, quasi esclusivamente, al maschile.

Rispetto agli uomini, ci sono meno donne a insegnare discipline Stem. Meno donne nei team aziendali che sviluppano tecnologia e intelligenza artificiale. Meno donne – ancora – nella già ristretta cerchia di programmatori e sviluppatori.

E, come se non bastasse, meno donne che utilizzano l’AI generativa nel proprio lavoro: il 29%, dati Ocse alla mano, contro il 41% dei colleghi uomini. Si parla di gap augmentation: il rischio concreto che il gap lavorativo fra uomini e donne sia cristallizzato, e persino accentuato, dall’utilizzo asimmetrico delle nuove tecnologie.

In tal senso, gli atenei possono, e debbono, trovare una risposta nella combinazione di saperi e competenze. Contaminare la tecnica con le scienze sociali – l’economia, il diritto, la politica – significa rendere i percorsi formativi più aderenti alla realtà del lavoro e alle esigenze delle imprese, riducendo quel disallineamento che spesso spinge i laureati più qualificati a cercare altrove migliori prospettive.

Allo stesso tempo, integrare approcci diversi, valorizzare linguaggi plurali e includere prospettive non lineari rende i percorsi tecnologici più accessibili anche alle donne, tradizionalmente escluse o disincentivate da contesti percepiti come rigidi o monoculturali.

L’interdisciplinarietà, insomma, non è solo un metodo didattico: diventa piuttosto condizione indispensabile per trattenere i talenti, ridurre le disuguaglianze e rendere l’innovazione davvero trasformativa. Perché un ingegnere che comprende i meccanismi economici è più pronto a fare impresa. Perché una studentessa di matematica che analizza criticamente la realtà è più propensa a restare, a contribuire e a guidare il cambiamento.

Affrontare le sfide di un mondo complesso significa costruire percorsi formativi altrettanto complessi, sfaccettati, multidisciplinari. Formare figure ibride, capaci di leggere la tecnologia dentro i contesti, è oggi una necessità economica, prima ancora che culturale. E su questo terreno, l’università può fare la differenza, con visione e coraggio.

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Irene Finocchi: professoressa ordinaria di Informatica alla Luiss, dove dirige il dipartimento di AI, Data and Decision Sciences ed è Advisor del Rettore per la Trasformazione digitale. In precedenza, è stata professoressa associata alla Sapienza e visiting presso IT University of Copenhagen e AT&T Research Laboratories.

L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia di luglio-agosto 2025 (numero 6, anno 8)



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