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Salario minimo, competenze legislative e Corte Costituzionale



Il Governo ha impugnato la legge della Regione Toscana 30/2025, in materia di salario minimo, dinanzi alla Corte costituzionale, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e) Cost., che prevede una competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza.

Per un inquadramento normativo della vicenda rimandiamo al nostro articolo.

L’articolo 117 della Costituzione: contenuti e funzione

La riforma del Titolo V della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha ridefinito profondamente la distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, articolandola su tre livelli.

L’articolo 117, in particolare:

  • al comma 1, vincola l’esercizio della potestà legislativa al rispetto della Costituzione, del diritto dell’Unione europea e degli obblighi internazionali;
  • al comma 2, elenca le materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui figura la “tutela della concorrenza” (lettera e);
  • al comma 3, individua le materie di legislazione concorrente, in cui spetta allo Stato dettare i principi fondamentali e alle Regioni la normativa di dettaglio (ad esempio, tutela della salute, sicurezza sul lavoro, commercio);
  • al comma 4, sancisce il principio della competenza residuale, per cui tutte le materie non espressamente riservate allo Stato spettano alle Regioni.

Tutela della concorrenza: una competenza trasversale dello Stato

Nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, la “tutela della concorrenza” non è intesa in senso meramente tecnico o economico, ma come una competenza trasversale ed espansiva, idonea a incidere anche su settori materiali affidati alle Regioni.

La Corte ha più volte precisato che rientra in questa materia ogni intervento normativo che incida sul libero accesso al mercato, sulle condizioni di parità tra operatori economici e sul corretto funzionamento del sistema concorrenziale.

Per questa ragione, ogniqualvolta una legge regionale introduce criteri che potrebbero alterare gli equilibri del mercato o creare barriere all’accesso fondate su requisiti non uniformi tra i territori, essa si espone al rischio di essere considerata invasiva della competenza statale.

Nel caso toscano, il Governo ritiene che il riconoscimento di un punteggio premiale alle imprese che applicano un salario minimo possa falsare la concorrenza nei bandi pubblici, limitando la libertà di partecipazione delle imprese che si attengono alla disciplina retributiva ordinaria, fondata sulla contrattazione collettiva.

Regioni e appalti pubblici: margini di manovra

Dal canto suo, la Regione Toscana rivendica la legittimità del proprio intervento, sottolineando che lo stesso non introduce affatto un salario minimo legale – atto evidentemente riservato al legislatore statale – ma, piuttosto, sancisce l’adozione di un criterio qualitativo nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, fondate sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Invero, secondo quanto disposto dall’articolo 108 del D.Lgs. 36/2023 (Codice dei contratti pubblici), le stazioni appaltanti possono prevedere criteri premiali legati alla qualità dell’occupazione, alla stabilità contrattuale e al rispetto dei contratti collettivi.

In questo quadro, l’incentivazione delle imprese che adottano retribuzioni maggiori potrebbe rientrare nella valutazione della qualità del lavoro.

La questione si sposta allora sul piano della proporzionalità e della coerenza: il punteggio premiale previsto dalla legge regionale è tale da ostacolare la concorrenza, oppure rappresenta una legittima valorizzazione sociale nell’ambito dell’offerta?

Concorrenza o dumping? Il punto critico della controversia

Al centro del conflitto vi è la tensione tra due rilevanti principi: da un lato, la tutela della concorrenza come condizione per l’efficienza dei mercati; dall’altro, la valorizzazione del lavoro come fondamento della Repubblica (artt. 1 e 36 Cost.).

Il rischio che la concorrenza si trasformi in dumping salariale è stato evidenziato anche da istituzioni europee e organismi statistici nazionali. Il legislatore regionale tenta qui un bilanciamento: non impone limiti, ma premia chi garantisce condizioni migliori. Non esclude le imprese, ma attribuisce un vantaggio competitivo a chi rispetta un certo standard sociale.

A ben vedere, la posta in gioco è più ampia e sorgono diversi interrogativi. In primo luogo, può la concorrenza essere davvero “leale” quando si fonda sull’abbattimento del costo del lavoro? E ancora, è legittimo per un ente pubblico, in quanto committente, premiare le imprese che investono sulla qualità e sulla dignità del lavoro, in linea con i principi della Costituzione?

Due visioni dello Stato a confronto

Il ricorso del Governo contro la legge toscana sul salario minimo premiale mette in luce una frattura profonda tra due concezioni dell’azione pubblica.

Da un lato, una visione che privilegia la neutralità del mercato, in cui ogni intervento che favorisca alcuni operatori (sulla base di criteri etico-sociali) è visto come una distorsione da correggere. Dall’altro, una visione che concepisce la pubblica amministrazione come agente attivo di promozione sociale, capace di guidare il mercato verso obiettivi di equità, qualità e sostenibilità.

La Corte costituzionale sarà chiamata, ancora una volta, a dirimere un conflitto non solo giuridico, ma anche culturale e politico.

E allora, rimane aperta una domanda finale: possiamo davvero continuare a parlare di “libera concorrenza” quando il prezzo da pagare è la compressione dei diritti dei lavoratori? O dobbiamo rivalutare i confini tra mercato e giustizia sociale, a partire proprio dai contratti pubblici?



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