Nel 2024 le banche italiane hanno registrato un nuovo massimo in termini di utile netto, con un totale di 46,5 miliardi di euro, in crescita di 5,7 miliardi (+14%) rispetto al 2023.
Un risultato che porta la somma degli utili realizzati nel triennio 2022–2024 a oltre 112 miliardi.
A certificarlo è la Federazione Autonoma Bancari Italiani – FABI, la cui analisi mostra chiaramente un punto di svolta a partire dal 2022.
Dopo una fase meno effervescente, tra il 2018 e il 2021 – segnata da utili oscillanti tra i 15 e i 16 miliardi e un forte impatto della crisi pandemica nel 2020 – l’utile netto ha cominciato a crescere in modo significativo, passando da 25,5 miliardi nel 2022 a oltre 40,7 miliardi nel 2023, fino ai 46,5 miliardi del 2024.
Lo scorso anno i ricavi del settore hanno toccato quota 110,1 miliardi, con una crescita del 7,2% rispetto al 2023 e un balzo del 33,8% sul 2018.
“Un triennio d’oro, si legge nel Report, sostenuto da un contesto monetario straordinariamente favorevole, legato alla stretta sui tassi d’interesse operata dalla Banca centrale europea a partire dalla metà del 2022, che ha rilanciato la redditività dell’intermediazione creditizia ovvero i profitti legati ai prestiti a famiglie e imprese”.
Come denuncia però Unimpresa, le banche italiane godono di una pressione fiscale “paradisiaca”: a fronte dei 46,5 miliardi di euro di utili netti realizzati nel 2024, le banche hanno versato al fisco 11,2 miliardi, con un tax rate effettivo – cioè il rapporto tra le imposte pagate e i profitti – pari al 24,2%.
“È evidente, sottolinea il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora, che siamo di fronte a una pressione fiscale assai distante – e più leggera – rispetto a quella che grava sul sistema produttivo nazionale, soprattutto sulle piccole e medie imprese, costrette a operare con un carico fiscale reale che spesso supera il 60%.
Non si tratta di criminalizzare il sistema bancario, ma di aprire un confronto serio sulla giustizia fiscale e sull’equilibrio tra i diversi attori economici.
È lecito chiedersi se sia sostenibile, in un Paese che fatica a finanziare welfare, scuola, sanità e infrastrutture, mantenere un’imposizione così ridotta su uno dei comparti più redditizi, cresciuto a dismisura grazie alle politiche monetarie restrittive della Banca centrale europea.
Occorre una riflessione politica, lucida e non ideologica, su come redistribuire più equamente il carico fiscale.
Non chiediamo nuove tasse per decreto, ma un sistema più trasparente e coerente, che non penalizzi chi produce, investe e assume, e che restituisca un senso di equità a tutto il sistema. Altrimenti, il rischio è che si approfondisca ancora di più la frattura tra l’economia reale e la finanza”.
Intanto, la geografia del settore bancario italiano vive una profonda trasformazione, con una marcata riduzione del numero di operatori e soprattutto con una contrazione della rete territoriale: in sei anni, il numero complessivo di banche e gruppi bancari è passato da 505 a 420 unità (meno 17%), un segnale evidente del processo di concentrazione e di accorpamento che ha interessato l’intero settore.
Un calo che ha coinvolto tutte le componenti del sistema, ma che è stato particolarmente marcato nel mondo del credito cooperativo e delle banche popolari: le banche popolari sono scese da 22 a 16, mentre le Bcc (banche di credito cooperativo) si sono ridotte da 268 a 218.
Parallelamente, si è drasticamente ridotto anche il numero degli sportelli bancari, che sono passati da 25.409 nel 2018 a 19.655 nel 2024, con un taglio di quasi 6.000 filiali (-22,6%).
La mappa del credito si è dunque sfoltita, soprattutto nelle aree periferiche.
Stiamo parlando di quel “deserto bancario”, che tante difficoltà sta arrecando a cittadini e comunità: https://www.pressenza.com/it/2025/08/il-deserto-bancario-che-avanza/.
Qui per approfondire gli utili delle banche: https://www.fabi.it/2025/07/19/gli-utili-delle-banche-oltre-46-miliardi-nel-2024/.
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