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Perché gli imprenditori cinesi si suicidano? | Crisi economia cinese


Nella Repubblica Popolare Cinese è in atto una serie di suicidi. Quattro imprenditori di rilievo, operanti in settori differenti, si sono tolti la vita nel giro di quattro mesi, attirando l’attenzione degli osservatori internazionali sulla grave crisi che del settore privato cinese. Bi Guangjun, Liu Wenchao, Zeng Yuzhou e Wang Linpeng — rispettivamente imprenditori nel tessile, montaggio ascensori, materiali da costruzione e grande distribuzione — si sono tutti uccisi lanciandosi da edifici. Fonti interne cinesi di Et Usa hanno rivelato che  questi quattro imprenditori avevano investito ingenti capitali ed erano falliti.

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Per il regime comunista cinese va tutto a gonfie vele, al punto che dichiara una crescita economica migliore del previsto nel primo semestre dell’anno. Ma  la realtà è un’altra. E anche questi suicidi ne sono la dimostrazione. Secondo gli esperti le cause comuni che emergono da questi tragici episodi riguardano diversi aspetti come la crisi di liquidità, l’aumento dell’indebitamento, l’incertezza politica e il deterioramento della fiducia nel sistema economico cinese nel suo insieme.
L’ingente indebitamento degli enti locali ha di fatto ridotto le possibilità di finanziamento per il settore privato: sebbene gli organi di propaganda del regime promuovano slogan come «sostenere l’economia reale», il capitale viene di fatto destinato prevalentemente alle imprese controllate dallo Stato, mentre le poche aziende private che cercano di giocare secondo le regole del mercato sono spesso escluse dal credito. Le banche cinesi, d’alta parte, temono che i privati non riescano a restituire i debiti, e quindi stringono i cordoni del credito; dopo le ingenti perdite subite dall’impresa di uno degli imprenditori suicidi, ad esempio, la banca aveva bloccato la sua linea di credito (ovviamente temendone l’insolvenza) innescando così un perverso circolo vizioso, in cui gli ultimi cinque milioni di yuan (circa 685 mila dollari) a disposizione dell’impresa erano stati bloccati dalla banca, causandone il tracollo definitivo.

A questo genere di dinamiche, si aggiungono le difficoltà strutturali di diversi settori. Dal 2021 il mercato immobiliare cinese è in caduta libera e la domanda di abitazioni è crollata. E questo sta avendo ripercussioni su settori collegati, come ascensori, arredamento, elettrodomestici e materiali da costruzione. A questo va aggiunto il peggioramento delle esportazioni dovuto ai dazi statunitensi e all’aumento della produzione di altri Stati asiatici, che va a incidere ulteriormente sulle esportazioni e sulla capacità delle aziende cinesi di stare sul mercato. Questo clima economico negativo, ha compromesso le catene di approvvigionamento e strozzato i flussi di cassa. Come se non basasse, gli imprenditori cinesi operano in un contesto di eccessiva regolamentazione e di continui cambiamenti normativi: multe, congelamento dei conti correnti e controlli arbitrari possono paralizzare un’azienda da un giorno all’altro, grazie allo strapotere dell’Autorità anticorruzione (che nei fatti è un ufficio di sorveglianza politica) di arrestare le persone privandole dell’assistenza legale. Uno degli imprenditori suicidi era infatti stato arrestato e messo in isolamento, senza poter parlare con un avvocato, con l’obiettivo di estorcergli una “confessione” che servisse a ricostruire una fantomatica “rete di interessi” di cui il povero imprenditore – già sull’orlo del fallimento per conto proprio – era accusato di far parte. Insomma: nella dittatura comunista cinese, un normale imprenditore – ma, a ben vedere, chiunque – può in ogni momento essere fatto fuori col pretesto di essere un nemico del Partito o della “patria” (che nel regime cinese sono la stessa cosa).
L’attività d’impresa, nella Repubblica Popolare Cinese, è sempre invariabilmente soggetta al potere politico dell’onnipresente e onnipotente partito comunista (questo anche perché la magistratura, nel senso in cui la intendiamo in Occidente, in Cina non esiste); per cui, dei modelli di business basati sulla fiducia – su pagamenti anticipati, finanziamenti a catena e garanzie personali – crollano ancora più facilmente che in Occidente: basta un singolo evento a scatenare una reazione a catena incontrollabile: clienti che chiedano dei rimborsi – per esempio – possono far immediatamente scattare le richieste di saldo da parte dei fornitori; e i dipendenti, non appena vedono che aria tira, o protestano o abbandonano l’azienda.
E, a differenza di Stati Uniti ed Europa, nel regime cinese manca una reale tutela fallimentare per le imprese private. Le richieste di ristrutturazione del debito sono spesso respinte dai tribunali, in particolare per le aziende con pochi asset. Per cui, in Cina fallire è un attimo. E con il fallimento dell’impresa, l’imprenditore perde le proprie libertà personali e finanziarie: una sorta di morte civile in versione comunista, in cui l’imprenditore fallito non solo non viene minimamente aiutato a rimettersi in piedi, ma viene persino inserito in speciali liste nere, messo sotto sorveglianza e ostracizzato in ogni modo. Insomma: in Cina un imprenditore fallito è semplicemente finito.

Alla luce di tutto questo, non sorprende affatto che molti imprenditori cinesi dopo il fallimento vedano nel suicidio l’unica, tragica, soluzione.



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