Al ministero delle Imprese aperti 67 tavoli, di cui 37 attivi e 30 di monitoraggio. I fondi offrono soluzioni. Ma solo in cambio di super rendimenti
«Pochi giorni fa l’Ilva ha compiuto 65 anni e, per la prima volta, ha festeggiato con i forni spenti». Marco Bentivogli si occupa di siderurgia dal 2008, prima come sindacalista e oggi come coordinatore di Base Italia. «Attorno a quella che era la più grande acciaieria d’Europa si è ballata per anni una tarantella: più che affrontare i problemi, ci si è divisi fra industrialismo ad alte emissioni e ambientalismo estremo, con il risultato di non risolvere niente — dice —. Ormai l’Italia dipende dalla fornitura dall’estero per gran parte dei 15 milioni di tonnellate di acciaio a ciclo integrale richiesti dall’industria metalmeccanica nazionale che, lo ricordo, vale il 50% del nostro export: se non è strategica la produzione siderurgica, cosa lo è?».
L’ex-Ilva è la più grave crisi industriale in corso in Italia. «Stiamo parlando di 15-16 mila lavoratori — ricorda Ferdinando Uliano, segretario generale Fim-Cisl — sinora la situazione è stata gestita con la cassa che attualmente coinvolge oltre 5.600 persone, ma è una bomba sociale pronta a esplodere senza il piano di riconversione degli impianti».
L’incognita cessioni
Ma non c’è solo l’ex Ilva. Al ministero delle Imprese sono aperti 67 tavoli, di cui 37 attivi e 30 di monitoraggio: secondo la Uilm, oltre la metà riguarda aziende metalmeccaniche, con un aumento del 30% in un anno e con oltre 50 mila lavoratori coinvolti. Nell’elenco figurano marchi che hanno fatto la storia dell’industria europea e che si apprestano a cambiare proprietà. Il 30 luglio il gruppo indiano Tata ha annunciato l’acquisto di Iveco, con i suoi 13 mila dipendenti in Italia. Il giorno seguente, schiacciata da 4,9 miliardi di debiti, l’ex controllata di Fiat, Marelli, è stata consegnata dal fondo Kkr ai creditori, guidati dal fondo opportunistico Strategic Value Partners. Sia Tata sia Svp hanno rassicurato riguardo alle loro intenzioni di investimento, ma i sindacati restano guardinghi, scottati dal caso Beko-Whirlpool. «Nessuno si presenta dicendo che vuole smantellare le attività, la questione sono le scelte che seguono riguardo alla ricerca e sviluppo, all’organizzazione delle produzioni fra i vari Paesi e al destino dei fornitori italiani», sottolinea Ciro D’Alessio, coordinatore nazionale automotive per la Fiom-Cgil. «Non è detto che vada male ma non si può rimanere spettatori di decisioni prese altrove: perciò abbiamo chiesto al governo di intervenire».
Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha assicurato vigilanza sui casi Iveco e Marelli, paventando, se necessario, l’utilizzo del golden power a tutela di attività strategiche. «Abbiamo perso l’elettronica, gli elettrodomestici e la siderurgia: il guaio è che se tutto è strategico, niente lo è per davvero — sostiene Bentivogli —. Ora rischia l’automotive perché Exor degli Agnelli-Elkann sta smobilitando, vendendo all’estero Marelli, Comau e adesso Iveco; e anche Stellantis ha gravi problemi».
Il caso Fiamm
Dopo che la produzione si è ridotta di un terzo nei primi sei mesi del 2025, la Fim-Cisl stima che a fine anno le fabbriche italiane di Stellantis avranno assemblato 440 mila veicoli, sfruttando meno del 30% della capacità produttiva. Mirafiori, che al picco nel 1967 assemblava 5.000 auto al giorno, oggi sforna 121 vetture ogni 24 ore. In difficoltà ci sono però anche aziende meno note ma che rappresentano gangli vitali della manifattura italiana, la seconda d’Europa dopo la Germania. «Solo nelle ultime settimane — sottolinea D’Alessio — ci siamo occupati della possibile cessione delle batterie Fiamm al fondo tedesco Aurelius, dell’interesse di un gruppo italo-cinese per il produttore di sedili Lear e del probabile passaggio fra multinazionali americane della proprietà delle trasmissioni Dana che conta 12 stabilimenti e 4.000 addetti nel Paese». Spesso, infatti, le vertenze si concludono con la vendita dell’impresa a un altro gruppo o a un fondo di investimento. «L’Italia e l’Europa stanno perdendo pezzi di autonomia produttiva mentre il quadro geopolitico richiederebbe di mantenere un controllo saldo sulle catene di fornitura — avverte Uliano —. Non è una questione di sovranismo ma quando la proprietà passa da un imprenditore locale a un gruppo o a un fondo estero vengono meno i riferimenti per territorio e sindacati».
Questione di taglia
Il numero di crisi potrebbe peraltro risultare sottostimato perché le imprese di piccole dimensioni neanche arrivano a sedersi al tavolo ministeriale: chiudono e basta. «La base della manifattura italiana risale al secondo dopoguerra quando lo spirito imprenditoriale era nutrito dalla volontà di affrancarsi dalla povertà e assecondato da un grandissimo sviluppo demografico», ricorda Franco Bernabè, economista e manager di lungo corso. «Ne è scaturito un tessuto ricco di piccole e piccolissime aziende, una dimensione che si è rivelata però inadeguata ad affrontare la competizione innescata dalla globalizzazione e dall’ingresso nel mercato produttivo della Cina e dell’Asia».
Fra 2002 e giugno 2023 il numero di imprese manifatturiere in Italia è diminuito del 38%, ossia di 210 mila unità. «Può sembrare un dramma, in realtà la manifattura italiana si sta adattando al nuovo contesto che richiede imprese più grandi», osserva Bernabé. «E in questa transizione stanno giocando un ruolo cruciale i fondi di investimento, pronti a comprare e aggregare le aziende familiari che le nuove generazioni sono disposte a cedere».
Il 20% dell’occupazione
Non sempre, come dimostra l’esperienza di Kkr in Marelli, questi passaggi si rivelano un successo, specialmente quando le logiche di ritorno di breve termine dei fondi si scontrano con settori in radicale trasformazione e dai cicli di investimento lunghi. In generale, però, i dati sembrano dimostrare che la manifattura italiana è riuscita in un processo di adattamento che le ha permesso di superare le sfide della globalizzazione, dell’euro e persino della crisi energetica. L’industria rappresentata ancora un quinto dell’occupazione italiana ed è riuscita a più che compensare la stagnazione dei consumi interni con l’export, cresciuto del 30% in un decennio. Farmaceutica, agroalimentare, moda, energia e chimica hanno sopperito al declino di altri settori come l’auto.
Ora, però, le difficoltà economiche della Germania, primo partner commerciale, e la guerra dei dazi scatenata da Donald Trump stanno mettendo di nuovo alla prova questo modello. La produzione industriale italiana è in calo tendenziale da 26 mesi consecutivi e, calcola la Uil, nel primo semestre sono state autorizzate 305 milioni di ore di cassa integrazione, il 22% in più rispetto al 2024: 307 mila lavoratori si trovano in cig a zero ore. Anche settori trainanti come tessile, macchinari e alimentare mostrano segni di fatica e i servizi non possono supplire al calo dell’industria né per qualità né per quantità. «In un mondo che si apre al libero commercio, la manifattura va dove è più conveniente produrre e le economie avanzate si concentrano sui servizi — rimarca Bernabè — abbandonare del tutto l’industria lascia però un vuoto importante e persino pericoloso se il mondo si richiude. Gli Stati Uniti se ne stanno rendendo conto: un’economia di altissima astrazione, fondata su ingegneria, design, finanza e servizi, rischia di perdere la capacità di fare cose concrete».
La manifattura sembra giocare un ruolo non solo produttivo ma anche sociale, almeno a giudicare dall’insistenza di Trump sul rilancio dei «lavori di fabbrica». «I sindacati sono nati nella manifattura, ma in fondo hanno consentito di sviluppare un progetto condiviso, svolgendo un ruolo di collante che oggi manca nell’economia digitale», conclude Alessandra Lanza, senior partner di Prometeia. «Le fabbriche sono luoghi dove si vive e sono riconoscibili sul territorio, mentre le grandi piattaforme hanno un’organizzazione dispersa e faticano a creare appartenenza e coesione».
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