Sul futuro dell’ex Ilva c’è anche la firma del riottoso Piero Bitetti, che qualche settimana fa si era dimesso per marcare la distanza dai piani del governo. Non è l’accordo di programma – basta guardare i contenuti – che si sperava di chiudere nelle scorse settimane. Ma ieri al Mimit Adolfo Urso è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo tutte le parti in causa – governo, Regione Puglia, i duri e puri di Comune e Provincia di Taranto, l’amministrazione di Statte, l’autorità portuale – e stringere «un’intesa» che ribadisce la decarbonizzazione degli altiforni dell’Ilva.
Su un altro fronte caldo, i tre impianti per produrre preridotto di ferro, il cosiddetto Dri, gli stessi soggetti rimandano la discussione a dopo il 15 settembre. È stata invece inserita la nomina di un nuovo commissario, che avrà il compito di «esaminare nuove prospettive per la reindustrializzazione delle aree libere» di Taranto, valorizzando l’indotto.
Ma per capirne la valenza di quest’intesa, politica prima ancora che operativa, è utile rileggere quanto dichiarato dal ministro delle Imprese e del made in Italy dopo una maratona durata sette ore: «È una svolta che potrà incoraggiare gli investitori a manifestarsi con i loro piani industriali per il rilancio della siderurgia e la riconversione green». Tradotto, con il bando di gara per la vendita degli impianti ex Ilva riaperto la scorsa settimana e da chiudere il 15 settembre, si è voluto mandare un segnale per tranquillizzare i possibili acquirenti, garantendo che il territorio non si metterà di traverso.
Al riguardo lo stesso titolare del dicastero, vedendo i sindacati, ha ricordato che ci sono importanti «investimenti pubblici» per quest’operazione: 750 milioni per i contratti di sviluppo, un miliardo per il Dri, senza dimenticare altri fondi dalla Coesione in questa direzione. Quindi ha aggiunto che non è detto che il preridotto non si faccia a Taranto e che, per tutto il perimetro dell’ex Ilva, si guarda a «un unico acquirente per tutti i siti», ma non si esclude «la possibilità di due offerte, una per l’area nord e una per l’area sud». Ma solo se lo schema garantirà maggiore produzione di acciaio e assunti.
Come detto, il testo dell’accordo – nato dopo una serie infinite di limature e trattative serrate tra le parti – non affronta tutti i punti inseriti nel piano industriale presentato dai commissari di Acciaierie d’Italia, come il tentativo di tenere a Taranto tre forni elettrici al posto degli attuali altiforni e tre impianti per la produzione di riduzione di ferro, il cosiddetto Dri, da alimentare con una nave rigassificatrice da 5,1 miliardi di metri cubi di metano. Senza dimenticare il tentativo di decarbonizzare l’area entro sette o otto anni.
LA FORMULA
Proprio su questo ambito, e per superare lo scontro feroce in atto tra il governo e gli enti locali, è bastato mettere nero su bianco nell’intesa firmata ieri che il futuro «acquirente» dovrà attenersi alla «realizzazione di forni elettrici in sostituzione degli altiforni» e che «presenti nel rispetto dei tempi che saranno indicati in fase di aggiudicazione, le dovute istanze autorizzative sul versante ambientale e sanitario» per completare la decarbonizzazione nei tempi più rapidi. Critici i sindacati. «Non ci sono garanzie occupazionali», fa sapere Rocco Palombella della Uilm. Diverso il commento del leader di Confindustria, Emanuele Orsini: «Servono tre cose: decarbonizzazione come garanzia per i cittadini di Taranto, un investitore credibile e il consenso del territorio». E se il governatore Michele Emiliano sottolinea: l’acciaieria «può rinascere in armonia con diritto alla vita», il sindaco Bitetti rivendica che il testo non è «un accordo di programma».
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