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Perché alle aziende conviene versare il TFR nei fondi pensione


“Ma all’azienda conviene versare il TFR del lavoratore in un fondo pensione?” 

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È una domanda che ci pongono frequentemente i lavoratori, nel timore che il datore di lavoro possa opporsi o sollevare delle critiche alla loro decisione di aderire alla previdenza complementare.

Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), da sempre considerato un costo aziendale rilevante, può effettivamente trasformarsi in un’opportunità di risparmio e di ottimizzazione fiscale per le aziende. 

La chiave di volta risiede nella scelta di incentivare l’iscrizione dei dipendenti ai fondi pensione con il versamento del TFR maturando: una decisione incentivata dal legislatore con una serie di misure “compensative” volte ad alleggerire il carico per le imprese.

Noi di Ciao Elsa ci impegniamo a rendere semplici e comprensibili anche gli aspetti più complessi e noiosi legati alla previdenza, al TFR e ai fondi pensione, offrendo una visione completa che va dal singolo lavoratore alle aziende. 

Abbiamo scritto questo articolo proprio con questo obiettivo: fornire un quadro chiaro e dettagliato dei vantaggi economici per le imprese che versano il TFR dei propri dipendenti alla previdenza complementare.

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Premessa importante sul TFR

A nostro avviso, è fondamentale partire da un presupposto chiave: il TFR è denaro del dipendente. Sebbene in passato sia stato spesso considerato una forma di autofinanziamento per l’impresa, oggi è chiaro che il TFR rappresenta un debito che l’azienda ha verso i suoi lavoratori.

Ricordiamolo: il TFR è una somma pari al 6,91% della retribuzione annua del lavoratore, che l’azienda accantona e liquiderà al dipendente al termine del rapporto di lavoro.

Sappiamo inoltre che il TFR mantenuto in azienda e liquidato al lavoratore al momento della conclusione del rapporto di lavoro subirà una tassazione a carico del dipendente calcolata in base alla media delle aliquote IRPEF dei suoi ultimi cinque anni di retribuzione, con un impatto fiscale che può variare in funzione della carriera del dipendente.

Dal 2007, a seconda delle dimensioni dell’impresa, il TFR segue percorsi diversi:

  • Aziende con meno di 50 dipendenti: Il TFR maturando è materialmente depositato in azienda
  • Aziende con più di 50 dipendenti: il TFR maturando viene versato al Fondo di Tesoreria gestito dall’INPS

La soglia dei 50 dipendenti viene determinata calcolando la quantità di lavoratori in forza nel corso del 2006, se l’azienda è stata fondata prima del 2007. Per le aziende costituite a partire dal 2007 in poi, invece, la soglia è individuata sulla base della quantità di dipendenti nel primo anno di attività. In ogni caso, nel primo anno non è dovuto alcun versamento all’INPS, in attesa di definire la soglia.

Detto questo, la gestione del TFR non è un elemento “neutro” per i bilanci aziendali: oltre a comportare un costo implicito per le imprese, richiede rivalutazioni finanziarie annuali e può generare ulteriori oneri che approfondiremo tra poco. 

L’opzione di mantenere il TFR in azienda non è sempre la più conveniente e, considerato che il TFR è un debito per l’azienda, la scelta di un dipendente di destinarlo a un fondo pensione non dovrebbe rappresentare a priori un problema, ma piuttosto un’opportunità di risparmio per l’azienda

Il Decreto Legislativo 252/2005 ha, infatti, introdotto specifiche “misure compensative” che alleggeriscono il carico per le imprese, trasformando un costo in un vantaggio strategico.

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Vediamole insieme.

I vantaggi per le aziende

L’articolo 10 del d.Lgs 252/2005 ha introdotto un pacchetto di incentivi per le aziende che versano il TFR maturando dei propri dipendenti a forme di previdenza complementare o sono tenute al versamento del TFR al Fondo di Tesoreria INPS. Queste misure, definite “compensative”, si traducono in un tangibile risparmio sul costo del lavoro:

  • Deducibilità aggiuntiva dal reddito d’impresa. Il TFR costituisce a tutti gli effetti un costo aziendale interamente deducibile dal reddito imponibile. Se viene destinato alla previdenza complementare, la deducibilità può aumentare fino a:
    • 4% del TFR annuo versato ai fondi pensione per le aziende con più di 50 dipendenti;
    • 6% del TFR annuo versato  per le imprese con meno di 50 dipendenti. 

In pratica, quando il TFR viene destinato alla previdenza complementare, l’intero ammontare conferito utilizza una base di deduzione maggiorata: se, per esempio, il TFR è pari a 1.500 €, sarà possibile applicare la deduzione su una base di 1.560 € (1.500 € x 1,04) per le aziende con più di 50 dipendenti e a 1.590 (1.500 € x 1,06) per le realtà con meno di 50 dipendenti.

Questo significa che, se alla fine dell’anno un’azienda ha 100.000 euro di TFR accantonato e questo si rivaluta del 3%, l’importo salirà a 103.000 euro. L’anno successivo, la rivalutazione non si applicherà più sui 100.000 iniziali, ma sul nuovo TFR accantonato in quell’anno più l’intero importo rivalutato l’anno precedente di 103.000 euro, secondo la nuova percentuale di inflazione. 

In pratica, si innesca un meccanismo di capitalizzazione composta, dove gli interessi generano altri interessi. 

Destinando invece il TFR alla previdenza complementare, questo obbligo viene completamente eliminato, liberando l’azienda da un costo aggiuntivo che può diventare significativo, soprattutto in periodi di alta inflazione. 

Basti osservare la tabella riportata qui sotto, dove emergono chiaramente le elevate percentuali di rivalutazione del TFR registrate nel biennio 2021-2022, anni in cui l’inflazione è stata pari, rispettivamente, al 3,81% nel 2021 e all’11,29% nel 2022.

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Esempio pratico: quanto si risparmia?

Per comprendere meglio l’impatto di queste misure, consideriamo un’azienda con:

  • 30 dipendenti
  • retribuzione annua lorda (RAL) media di 30.000 euro a dipendente
  • Monte retribuzioni totale: 900.000 euro annui
  • TFR annuo (6,91% del monte retribuzioni): 62.190 euro
  • inflazione media al 2%.
tabella confronto benefici tfr in azienda o fondo pensione

In questo scenario, se tutti i dipendenti mantenessero il TFR in azienda, quest’ultima non potrebbe beneficiare di alcun risparmio fiscale, compresa la riduzione degli oneri impropri pari a 2.520 €, sostenendo al contempo un costo annuo legato alla rivalutazione del TFR di circa 1.865 € e del versamento del contributo per il Fondo di Garanzia (1.800 €).

Alternativamente, se l’azienda versasse il TFR dei dipendenti a un fondo pensione, otterrebbe un vantaggio composto così: 

  • deducibilità = + 1.041 € 
  • oneri non dovuti= – 4.320 € 
  • mancato onere di rivalutazione del TFR di circa 1.865 € 

Un risparmio complessivo di 7.226 € nel singolo anno

Se ipotizzassimo poi livelli di inflazione maggiori, per esempio attorno al 4% medio annuo, il confronto tra le due opzioni si farebbe più netto per effetto della maggiore rivalutazione dovuta dall’azienda che, nel singolo anno, dovrebbe rivalutare il TFR del 4,5% (1.5% + 75% dell’inflazione al 4%).

E nel lungo periodo? 

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Su un orizzonte temporale di 10 anni, l’effetto della capitalizzazione composta ovvero degli “interessi sugli interessi” incide in modo significativo sulla rivalutazione del TFR lasciato in azienda. Guardiamo la tabella qui sotto.

tabella benefici tfr in azienda o fondo pensione in 10 anni

Nel caso in cui il TFR venga lasciato in azienda, l’impresa è tenuta ad accantonare oltre 710.000 euro, di cui più di 90.000 imputabili alla sola rivalutazione, in uno scenario di inflazione moderata (2%). 

Al contrario, qualora il TFR dei dipendenti fosse integralmente destinato alla previdenza complementare, l’azienda otterrebbe un vantaggio composto così: 

  • deducibilità = + 10.410 €  
  • oneri non dovuti= – 43.200 € + 
  • mancato onere di rivalutazione del TFR di circa 91.038 €. 

Un risparmio complessivo di 144.648 € in dieci anni

Un’opportunità reale, ma ancora sottovalutata: molte aziende la ignorano e rinunciano così a benefici concreti.

L’elefante nella stanza: il contributo datoriale e il suo vantaggio

Dai conteggi fin qui proposti sembra evidente che le aziende possano avere un vantaggio economico nel versare il TFR dei dipendenti alla previdenza complementare. Ci sono quindi altre ragioni che potrebbero spingerle a non accogliere positivamente l’iscrizione di un lavoratore?

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Un motivo di resistenza potrebbe essere legato al timore che, nel momento in cui un dipendente decide di destinare il TFR a un fondo di previdenza complementare con accordo previsto dal CCNL, quindi in un fondo negoziale o un fondo pensione aperto in accordo con l’azienda, il datore di lavoro sia poi obbligato a versare anche il cosiddetto “contributo datoriale”.

Questo contributo, aggiuntivo rispetto al TFR, consiste in una percentuale della RAL o della retribuzione utile al calcolo del TFR (a seconda dei CCNL) che generalmente è compresa tra l’1% e il 3%. 

In molti casi, rappresenta una sorta di “elefante nella stanza”: è noto a tutti i datori di lavoro che si tratta di un vantaggio concreto per il dipendente, capace di rafforzare significativamente la sua posizione previdenziale futura, ma sono ancora pochi coloro che lo accettano con favore. Il motivo? Viene spesso percepito esclusivamente come un costo aggiuntivo per l’azienda.

Ma è davvero così oneroso, se confrontato con i benefici appena descritti?

Riprendiamo il nostro esempio. 

Ipotizziamo che tutti i 30 dipendenti aderiscano a un fondo pensione che prevede un contributo datoriale dell’1%. Questo impegno si tradurrebbe in un esborso annuo complessivo di 9.000 € di contributo datoriale. 

tabella esempio risparmio annuo contributo datoriale

In questi esempi abbiamo volutamente considerato un tasso di inflazione basso (2%), ma dobbiamo tenere conto del fatto che all’aumentare dell’inflazione cresce anche il risparmio per le aziende che versano il TFR alla previdenza complementare, “spostando” così l’onere della rivalutazione al di fuori della propria gestione, anche a fronte del versamento del contributo datoriale.

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Potrebbe sembrare banale o remoto, ma è un aspetto tutt’altro che secondario: l’impennata inflazionistica del biennio 2021-2022 ha dimostrato quanto questi fenomeni siano imprevedibili e totalmente fuori dal controllo aziendale. 

Quando l’inflazione colpisce, lo fa all’improvviso e sono le imprese a doverne sostenere i costi.

Oltre ai vantaggi fin qui visti, è importante tenere in considerazione anche che il contributo datoriale:

  • Riduce il carico fiscale: il riconoscimento del contributo azienda comporta minori imposte sul reddito d’impresa in relazione ai maggiori costi sostenuti.
  • E’ escluso dal calcolo dei contributi previdenziali obbligatori: a differenza di un aumento retributivo, che comporta un aggravio contributivo per l’azienda superiore al 23%, il contributo al fondo pensione non rientra nella base imponibile per la contribuzione INPS.

Ulteriori spunti di riflessione sul TFR mantenuto in azienda

A quanto fin qui esposto, è utile aggiungere ulteriori considerazioni aggiuntive.

  • la rivalutazione del TFR mantenuto in azienda segue una crescita esponenziale, dovuta al meccanismo della capitalizzazione composta. Al contrario, il contributo datoriale segue una dinamica lineare, restando costante nel tempo a parità di retribuzione. 

Questo significa che, in presenza di un clima aziendale positivo e trasparente in cui i dipendenti percepiscono che l’azienda investe nel loro futuro anche attraverso il versamento del contributo aziendale, aumenta la motivazione e la propensione a restare a lungo in azienda. Di conseguenza, con la destinazione del TFR alla previdenza complementare, l’impresa può evitare l’effetto moltiplicativo nel tempo della rivalutazione composta del TFR mantenuto internamente.

grafico contributo datore di lavoro e rivalutazione tfr in azienda
  • Se l’azienda non utilizza il TFR per coprire le spese correnti (scelta senz’altro prudente) mantenerlo a bilancio genera comunque costi finanziari, legati alla necessità di depositare o investire tali somme nel tempo. Giacenze in conto corrente, conti deposito, polizze assicurative o altri strumenti finanziari comportano oneri e, in ogni caso, espongono il datore di lavoro al rischio di controparte.
  • Versare periodicamente il TFR maturato dai dipendenti alla previdenza complementare permette di pianificare un’uscita ordinata delle risorse, evitando il rischio che l’uscita imprevista di uno o più lavoratori crei emergenze di liquidità o obblighi a negoziare, anche attraverso le vie sindacali, piani di pagamento rateizzati del TFR.

In chiusura

Destinare il TFR maturando dei dipendenti ai fondi pensione può rappresentare una scelta strategica per le aziende che attualmente mantengono tale risorsa a bilancio. 

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Al di là del mero adempimento normativo, questa opzione offre vantaggi economici concreti: riduzione del costo del lavoro, maggiore efficienza fiscale e semplificazione nella gestione finanziaria.

È evidente che, per le realtà in oggettive difficoltà economiche che necessitano del TFR maturando per far fronte a esigenze di liquidità, questo percorso può risultare meno percorribile (anche se non è certo la condizione ideale in cui trovarsi). 

Tuttavia, per le aziende che adottano una pianificazione finanziaria consapevole, che tengono al benessere dei propri dipendenti e desiderano cogliere i benefici delle misure compensative e dell’esonero dalla rivalutazione del TFR, la previdenza complementare si rivela una scelta vantaggiosa anche dal punto di vista aziendale.

In un contesto sempre più competitivo, saper cogliere queste opportunità può fare la differenza, trasformando un apparente costo in una leva per la crescita e la sostenibilità dell’impresa.

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Ci occupiamo di tutte le pratiche amministrative per il trasferimento del TFR ai fondi pensione, rendendo il processo semplice e senza complicazioni. 

In più, affianchiamo i lavoratori nella pianificazione previdenziale personalizzata, costruendo soluzioni su misura in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi di lungo periodo.

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