Non sarà possibile, come è avvenuto fin ora, utilizzare il tempo tra la richiesta e la valutazione da parte della Commissione per far partire i progetti: questo complicherà molto le cose. Il pericolo è che diventi un assegno in bianco
L’ultima rata del Pnrr sarà la più difficile. Conterrà 170 obiettivi, circa quattro volte tanto le rate precedenti. E a complicare ulteriormente la partita c’è un vincolo tecnico: non sarà possibile, come è avvenuto finora, utilizzare il tempo tra la richiesta e la valutazione da parte della Commissione per far partire i progetti, con una perdita di mesi preziosi proprio nella fase finale. Nasce così la proposta di un “Fondone nazionale” al Mef, dove far confluire le risorse Pnrr non spese entro giugno 2026. Le regole Ue prevedono flessibilità, a patto di disporre di alternative pronte e coerenti con le priorità (competitività, energia, casa, acqua, difesa). Serve che tutti i ministeri conferiscano le risorse avanzate, il rischio è che lo faranno solo se garantiti di ricevere rifinanziamenti proporzionali – un pericoloso scambio do ut des, insensato. Se avessero alternative, le avrebbero già attivate: lo dimostra il solo caso delle Infrastrutture, che ha potuto spostare risorse grazie a progetti pronti – piano casa e treni regionali – e forse a fondi nazionali extra. Gli altri ministeri, soprattutto con progetti “soft” come Lavoro, Turismo e Industria 5.0, non hanno misure sostitutive o riconvertibili in altri capitoli. Quei progetti erano scritti nel 2020-2021 per un mondo diverso e, colpevolmente, non sono stati cambiati per tempo nelle revisioni successive. Una tentazione concreta è abbassare i target, illudendosi di spendere meno e tenere più fondi: una pura contabilità lilusionistica, perché resta l’obbligo di completare i programmi o rischiare la devoluzione dei fondi. In realtà bisognerebbe far uscire dal Pnrr i progetti non finiti (anche quelli dei comuni) per non dover restituire le quote.
Ma come hanno fatto gli altri paesi che hanno avanzato soldi Pnrr? La Repubblica Ceca ha operato con nettezza: nella sua revisione Pnrr, dopo aver sospeso una parte del pagamento (162,7 milioni€ della quarta tranche e 97,6 milioni€ della quinta) a fronte di milestone non raggiunti, ha deciso di rinunciare alle risorse non spese, anziché accumularle o spostarle altrove. Un modello di trasparenza e rigore: non perde credibilità, evita alibi e mantiene il controllo parlamentare. La Polonia, al contrario, ha creato davvero un fondo difesa: una Spv (società veicolo) sotto la banca nazionale di sviluppo “pillar assessed”, come segnalato nelle carte del Consiglio (pp. 58‑60, 66). In Italia, il Tesoro osserva con interesse la possibilità di impiegare il “Fondone” nelle spese militari – una delle poche spese ad attingibilità rapida e politicamente accettabile (?). Per di più se spendi subito, per le nuove regole europee ti crei anche maggior spazio fiscale per il futuro. Il pericolo è che diventi un assegno in bianco, con scarsa trasparenza e senza rigore riformatore. E che il “Fondone” assomigli ai vecchi fondi di coesione: tanti vincoli, poca spesa reale. Con la differenza che stavolta il debito è già contratto, non è ex post come per i fondi strutturali.
Nei mesi scorsi l’Italia aveva accarezzato l’idea di utilizzare le risorse residue del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per compensare le imprese italiane colpite dai dazi statunitensi. Ma la questione resta sospesa: non è chiaro se e come ciò sia possibile, perché la Commissione europea deve ancora pronunciarsi. Il problema non è banale: le compensazioni alle imprese non sono né possibili né ragionevoli; i sussidi all’esportazione sono vietati dalle regole europee e dell’Omc (Organizzazione mondiale del commercio), salvo rare eccezioni – ad esempio per i paesi meno sviluppati, per programmi di promozione generica all’estero o per strumenti finanziari come garanzie e assicurazioni se offerti a condizioni di mercato, ma queste ci sono già e in abbondanza. E così si rimanda, mentre adesso si entra nel vivo del gioco voluto da Trump. Esattamente come già successo nel 2018, è arrivato il momento in cui si presentano in fila le singole imprese e i loro lobbisti davanti all’amministrazione Usa per ottenere l’esenzione ad hoc dai dazi. Solo che adesso il gioco è moltiplicato per mille perché nel 2018 i dazi erano specifici a pochi prodotti ora sono generalizzati a tutti i paesi e a tutti i prodotti.
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