Che le risorse economiche dell’Ue siano inadeguate alle sfide dell’epoca lo si sente ripetere spesso e la Commissione Europea non sembra sforzarsi di contraddire l’obiezione, limitando l’aumento del bilancio pluriennale 2028-2034 a qualche decimale in rapporto al Pil dell’Unione (da 1,13 a 1,26% ). Ma a scuotere il dibattito, con l’alzata di scudi dei territori, è la prospettiva di una centralizzazione delle risorse della politica di coesione, che fino ad oggi è stata definita nel dialogo tra Commissione e regioni e da domani verrebbe “nazionalizzata” sul modello del Pnrr.
Siamo partiti da questo dilemma (meglio la prossimità dei territori o la visione più ampia del livello nazionale?) con Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, muovendo da un inaspettato punto di partenza: una ricerca sulla Sardegna, curata insieme a Carlo Amenta.
Stagnaro, perché l’esperienza del Pnrr in Sardegna dovrebbe dirci qualcosa di più sui rischi legati alla centralizzazione della politica di coesione europea?
«Il caso della Sardegna è paradigmatico: in un’isola con caratteristiche e difficoltà specifiche, ciò che si è fatto è stato replicare un modello di spesa del Pnrr simile, identico agli altri territori. Così si perde il legame con i bisogni locali, si applicano politiche a “taglia unica”, poco efficaci».
Centralizzare, si dice, aiuterà a superare i limiti progettuali e amministrativi delle regioni più fragili.
«Allora più che centralizzare servirebbe affiancare quelle regioni: con assistenza tecnica, e magari con partenariati che includano anche le più deboli, mettendole in rete per rafforzarsi reciprocamente. Ma senza un ruolo attivo degli enti locali, è difficile rispondere alle specificità territoriali».
C’è chi fa notare come la politica di coesione non abbia prodotto gli effetti di convergenza tra regioni ricche e povere, per i quali era stata pensata.
«Credo che il problema sia più profondo: non è questione di chi gestisce i fondi (poteri centrali o locali ), ma dell’idea che basti spendere soldi pubblici per generare sviluppo. Non funziona così. Le regioni meno sviluppate hanno ricevuto per decenni risorse che non hanno creato nulla di duraturo. Quando è finita la spesa, è finito il benessere, senza un vero sviluppo. La crescita economica si costruisce in altro modo».
A proposito di sviluppo, il bilancio UE intende spostare risorse verso la difesa e su di essa costruire una nuova politica industriale. La convince?
«Premetto che non è il mio campo valutare se e quanto serva spendere per la difesa. Ma una cosa voglio di dirla con chiarezza: la spesa per la difesa serve alla difesa e non è detto diventi uno strumento di crescita economica. Se compro una porta blindata per casa mia, lo faccio per proteggermi, non per aumentare il bilancio familiare. Pensare che le politiche per la sicurezza si traducano in sviluppo economico è quantomeno molto ottimista».
Non pensa che la spesa pubblica – nazionale ed europea – su difesa e competitività spingerà l’innovazione?
«Dipende. Se pensiamo di diventare competitivi solo perché investiamo soldi pubblici su progetti decisi a Bruxelles o a Roma, la scommessa è rischiosa. La Silicon Valley non è nata da un piano statale, ma da un ambiente favorevole all’innovazione, dalla libertà d’impresa, da un sistema universitario efficiente. Pensare che basti la spesa pubblica per colmare il gap tecnologico è illusorio, specie in un’Europa dove l’innovazione è bloccata da burocrazia e iper-regolazione».
Ci faccia un esempio.
«Qualche tempo fa, un’amministrazione comunale aveva costruito le condizioni per testare veicoli a guida autonoma. Il progetto è naufragato perché il Codice della Strada non ne consente la circolazione. Puoi spendere tutti i soldi che vuoi, ma se non puoi sperimentare, resti indietro».
Quindi, la semplificazione inserita tra gli obiettivi di Von der Leyen è positiva?
«Assolutamente sì. Anche se sull’attuazione non sono ottimista. Il combinato disposto tra le normazioni vincolistiche nazionali e quelle europee crea un ambiente ostile all’innovazione. Prenda la tutela della privacy: ha generato una burocrazia che paralizza l’uso dei dati. Così, mentre in Cina si allenano i modelli AI, noi siamo fermi».
Direbbe lo stesso sulla regolamentazione della sostenibilità?
«L’obiettivo è condivisibile, ma abbiamo moltiplicato obblighi e vincoli. Il risultato è un’impalcatura burocratica che aumenta i costi e rallenta i processi».
I tagli previsti nella proposta di bilancio alla politica agricola comunitaria per circa 80 miliardi stanno facendo discutere, gli agricoltori non ci stanno
«La Pac è tra le politiche più costose e meno efficienti dell’Unione. Negli ultimi anni ha fatto qualche passo avanti, ma resta una macchina di spesa poco produttiva, utilizzata in gran parte per proteggere le imprese meno efficienti, che tra l’altro hanno già protezioni di vario tipo, con norme che impediscono la concorrenza di prodotti stranieri anche quando sicuri».
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