Il 21 febbraio del 2023 Adolfo Urso ricevette nel suo ufficio del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit), a Roma, il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. In quell’occasione annunciò l’avvio di un «percorso» che avrebbe portato in tempi rapidi alla definizione di un accordo di programma, cioè un piano per «la riqualificazione e la riconversione dell’ex ILVA al fine di creare la più grande acciaieria d’Europa». In uno slancio di entusiasmo, Urso disse: «Taranto è il paradigma su cui si misura la nuova politica industriale del paese».
Erano del resto giorni di grandi dibattiti, quelli, sul futuro dell’enorme ma decadente acciaieria tarantina, per la quale da decenni si discute di cosa farne, come mitigarne l’impatto ambientale e allo stesso tempo salvaguardare i posti di lavoro. Il Senato stava per approvare un decreto, pensato apposta per l’ex ILVA, che nelle dichiarazioni del ministro dimostrava che «questo governo realizza gli impegni che assume». Un mese prima, durante una riunione al ministero, Urso aveva per la prima volta indicato ufficialmente «l’obiettivo di definire un accordo di programma per la riconversione industriale e ambientale del polo siderurgico».
Martedì scorso, in quello che lo stesso Urso la scorsa settimana aveva definito come «il giorno della verità», una nuova «decisiva» riunione al Mimit doveva definire questo famigerato accordo di programma. Non è stato così, perché la discussione di quel documento è stata rinviata, e Urso si è dovuto accontentare di approvare, insieme agli enti locali, al ministero dell’Interno e a quello della Salute, un’intesa piuttosto generica sul percorso necessario a decarbonizzare l’impianto. Il resto, pare, è rimandato a settembre: ma anche su questa scadenza non ci sono certezze. In ogni caso, Urso ha definito quello di martedì un accordo storico, celebrandolo come una svolta.
Sono passati insomma più di due anni e mezzo da quando Urso aveva annunciato la definizione di un accordo di programma, ma non è stato concluso nulla. Nel frattempo, però, si sono susseguiti annunci enfatici dello stesso ministro, assunzioni di impegni, indicazioni di scadenze che parevano fondamentali, riunioni che si pretendevano risolutive e un nuovo sindaco: l’ex ILVA, che è l’acciaieria più grande d’Europa tra quelle alimentate a carbone, resta sempre lì, ormai quasi del tutto ferma.
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Che la questione fosse una delle più complicate che si sarebbe trovato a dover affrontare, Urso lo sapeva fin dall’inizio del suo mandato, nell’ottobre del 2022. Da quando, negli anni Novanta, smise di essere uno stabilimento pubblico (si chiamava Italsider), l’impianto venne gestito prima dal gruppo Riva, poi più volte commissariato, in parte statalizzato e poi rimesso sul mercato; fu anche oggetto di contenziosi politici e giudiziari, ma un po’ tutte le soluzioni tentate da governi di diverso orientamento si sono rivelate estremamente dispendiose per le finanze pubbliche, e poco efficaci nel rilanciare la produzione a livelli sostenibili e in condizioni ambientali che non mettessero a rischio la salute dei residenti.
Nonostante la situazione piuttosto compromessa, Urso manifestò fin dai primi mesi della sua permanenza al Mimit baldanza e un certo ottimismo. Disse subito che l’obiettivo era trasformare l’ex ILVA «nella più grande acciaieria green d’Europa», considerando come facilmente realizzabili i piani di riconversione – dal carbone all’elettricità – dello stabilimento. Al contempo, Urso impostò fin dall’inizio un rapporto molto conflittuale con il gruppo indiano ArcelorMittal, che dal 2018 gestiva l’ex ILVA: il ministro contestava non solo il mancato rispetto degli impegni sulla transizione ecologica, ma anche gli scarsi livelli di produzione.
Il 6 dicembre del 2022, in parlamento, Urso disse che l’obiettivo era «di raggiungere al più presto i 6 milioni di tonnellate di produzione di acciaio, magari con l’obiettivo di tornare agli 8 milioni di tonnellate» all’anno. In quel momento, l’ex ILVA ne produceva meno di 3 milioni; ora, 34 mesi dopo le denunce di Urso, ne produce meno di 2 milioni.
Il contenzioso andò avanti per tutto il 2023. E mentre l’azienda continuava a ridurre i livelli di produzione, mantenendo attivo uno solo dei cinque altoforni presenti nello stabilimento, Urso prese perlopiù a evidenziare le colpe e le responsabilità dei precedenti governi. In un caso arrivò a biasimare l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda per non aver fatto in modo che ad aggiudicarsi la gara poi vinta da ArcelorMittal per l’acquisizione dell’acciaieria, nel 2017, fosse la cordata guidata dagli indiani di Jindal che aveva dentro anche Cassa Depositi e Prestiti, cioè il governo italiano. «In sostanza, mi critica per non aver commesso un reato: per non aver cioè manipolato una gara», commenta Calenda.
Nel gennaio del 2024 si arrivò poi alla decisione più importante: adottare l’amministrazione straordinaria per l’ex ILVA, estromettendo di fatto ArcelorMittal e avviando le procedure per vendere l’azienda dopo averla almeno parzialmente risanata. È un’operazione difficilissima: perché lo stabilimento è obsoleto e fortemente inquinante, perché la conversione degli altoforni dal carbone all’energia elettrica presuppone un fabbisogno di gas e la presenza di infrastrutture difficilmente immaginabili per Taranto, perché ci sono molte incognite sul piano giudiziario e amministrativo, perché i lavoratori attualmente impiegati o in cassa integrazione sono troppi per gli attuali livelli di produzione (e ridurli porterebbe a inevitabili conflitti coi sindacati e con gli enti locali).
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Eppure, a dispetto di questa difficoltà nel trovare un investitore solido e affidabile disposto a rilanciare l’impianto, Urso ha sempre rivendicato la bontà della sua strategia. L’8 settembre del 2024, intervenendo al forum Ambrosetti a Cernobbio, inserì anche l’ex ILVA tra le annose questioni risolte – o almeno questo sosteneva Urso – con solerzia dal governo. «Abbiamo ripreso in mano in febbraio il destino della siderurgia italiana e la procedura per l’assegnazione a un nuovo player è già in atto». Tra gli impegni presi da Urso per dimostrare il rilancio dell’acciaieria c’era anche la riattivazione di almeno due altoforni: al momento, c’è solo un altoforno funzionante.
In ogni caso, quando il 20 settembre del 2024 si concluse la prima fase della procedura di liquidazione, e si presentarono 15 imprese interessate a rilevare in tutto o in parte l’impianto, Urso esultò. «Un caso straordinario di efficienza della pubblica amministrazione», rivendicò in Senato, annunciando la seconda fase e dicendosi fiducioso che la vendita definitiva all’azienda «potrebbe avvenire già agli inizi del prossimo anno [cioè il 2025, ndr], dunque ad appena un anno dal nostro intervento di commissariamento». A gennaio del 2025, quando si capì che l’assegnazione dell’ex ILVA era tutt’altro che imminente, Urso ribadì comunque la sua soddisfazione: «Siamo sulla strada giusta per il rilancio della siderurgia italiana».
Lo stallo e l’incertezza durarono in realtà per mesi. Poi l’8 luglio scorso, durante una riunione con gli enti locali pugliesi, Urso annunciò di aver liberato la sua agenda per i successivi due giorni per condurre una trattativa a oltranza: «Abbiamo 48 ore per decidere», disse. Al termine della riunione, celebrò con toni trionfalistici l’ennesima «giornata storica per Taranto». Pochi giorni dopo, in effetti, fu raggiunto un risultato non scontato: l’approvazione, da parte di un comitato di esperti nominato dal ministero dell’Ambiente, dell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA), un documento che contiene le prescrizioni a cui i futuri eventuali gestori dell’impianto dovranno attenersi per ridurne l’impatto ambientale.
Un momento della riunione sull’ex ILVA che si è svolta al Mimit il 31 luglio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Nel racconto propagandistico fatto da Fratelli d’Italia e da Urso, questo fatto dimostra una cosa: «Che lo stabilimento ex ILVA di Taranto è salvo». Non è proprio così. Anzi, l’AIA rende per certi versi ancora più improbabile una vendita ottimale dell’ex ILVA, dal momento che i parametri da rispettare sono estremamente impegnativi, richiedono grossi investimenti e vincolano ancor più l’azione di un futuro ipotetico compratore.
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Il 17 luglio Urso ha convocato per il 31 di quel mese «l’incontro conclusivo per la definizione dell’accordo di programma»: lo stesso di cui parlava già nel febbraio del 2023. La riunione non è stata esattamente conclusiva, nel senso che non si è definito alcun accordo di programma: il tutto è stato rinviato al 12 agosto. Poi il 7 agosto il Mimit ha pubblicato un nuovo bando per la vendita dell’impianto, rendendo obbligatorio per l’acquirente realizzare la decarbonizzazione «nel più breve tempo possibile» e fissando una scadenza: il 15 settembre.
Però manca ancora l’accordo di programma tra i soggetti coinvolti, cioè il comune di Taranto, la regione, i ministeri e i sindacati. E senza quell’accordo l’intera procedura rischia di non potersi concludere, perché l’incertezza su come attuare la decarbonizzazione e con che tempi non attira eventuali soggetti interessati ad acquistare l’impianto. Neppure il 12 agosto, nella «giornata della verità» annunciata da Urso, è arrivato l’accordo di programma. Se ne riparla a settembre.
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