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perché l’occupazione record non risolve i problemi?


L’Italia supera i 24 milioni di occupati, un record storico. Eppure, il mercato del lavoro è minato da salari bassi, divari di genere e generazionali, e una produttività stagnante. Analisi delle contraddizioni.

Un record amaro che nasconde profonde insidie. I dati ufficiali parlano chiaro e alimentano un cauto ottimismo: l’Italia ha superato la soglia storica dei 24 milioni di occupati, un traguardo mai raggiunto prima. A una prima, superficiale lettura, si potrebbe parlare di un trionfo per l’economia nazionale. Tuttavia, scavando oltre la superficie dei numeri, emerge un quadro complesso, denso di ombre e contraddizioni strutturali che interrogano profondamente il futuro del Paese. Imprenditori, lavoratori e professionisti si pongono una domanda che risuona con sempre maggiore insistenza: perché l’occupazione record non risolve i problemi del lavoro in Italia? La risposta non è semplice né lineare, ma si articola attraverso una serie di paradossi che toccano la demografia, la formazione, la parità di genere e l’efficienza stessa del nostro sistema produttivo. Analizziamo, punto per punto, le sfide che si celano dietro la facciata di un successo statistico.

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Chi sta davvero trainando la crescita dell’occupazione?

La crescita esponenziale del numero di occupati, che oggi si attesta a 24.326.000 unità, ha un motore quasi esclusivo: i lavoratori over 50. Negli ultimi dodici mesi, questa fascia d’età ha visto un incremento di 603.000 occupati. Al contrario, la fascia centrale (35-49 anni) ha subito una contrazione di 180.000 unità. Questo fenomeno non è casuale, ma è la diretta conseguenza delle riforme previdenziali passate, su tutte la legge Fornero, che hanno posticipato l’età pensionabile, mantenendo le persone più a lungo nel mercato del lavoro. Se da un lato si registra un positivo aumento dei contratti a tempo indeterminato (+472.000 in un anno) a discapito di quelli a termine (-299.000), dall’altro il tasso di occupazione generale resta l’ultimo in Europa. Il dato è quindi drogato da un fattore demografico e normativo, più che da una reale e sana espansione del mercato.

Qual è la reale condizione di giovani e donne?

Per le categorie tradizionalmente più vulnerabili, il quadro è a tinte fosche. Per i giovani, il tasso di disoccupazione under 25 si attesta al 20,1%, un dato che ci pone agli ultimi posti a livello internazionale, a distanze siderali da Paesi come la Germania (6,4%). L’occupazione è in calo sia per gli under 25 (-43.000) sia per la fascia 25-34 anni (-17.000). A questo si aggiunge la piaga dei NEET (Not in Education, Employment, or Training): nel 2024 erano 1,34 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni in questa condizione, con un’incidenza doppia nel Mezzogiorno. La “fuga di cervelli” aggrava la situazione: tra il 2011 e il 2024, quasi 440.000 giovani, in gran parte laureati, hanno lasciato l’Italia, causando una perdita di capitale umano inestimabile.

Per le donne, la situazione non è migliore. Nonostante il tasso di occupazione femminile sia al suo massimo storico, il gap con gli uomini è abissale: 54,2% contro il 71,5% maschile, una differenza di oltre 17 punti. L’Italia è fanalino di coda in Europa, e la permanenza delle donne nell’inattività è superiore di 4 punti rispetto a quella maschile. L’OCSE stima che ridurre questo divario potrebbe aumentare il PIL pro capite di 0,35 punti l’anno fino al 2060.

La “bomba demografica” che impatto avrà sul lavoro?

Il calo delle nascite è un’emergenza nazionale con ripercussioni dirette e devastanti sul mercato del lavoro. Le proiezioni Istat sono inequivocabili: entro il 2040, il numero di persone in età lavorativa si ridurrà di circa cinque milioni. Bankitalia stima che ciò comporterà una contrazione del prodotto dell’11%. Con meno di 400.000 nascite l’anno, la popolazione italiana è destinata a passare dai 59 milioni attuali ai 54,7 milioni del 2050. In questo scenario, gli over 65 rappresenteranno il 34,6% della popolazione, facendo schizzare il tasso di dipendenza degli anziani al 52% nel 2060. Per l’OCSE, la popolazione in età lavorativa in Italia crollerà del 34% entro il 2060, una perdita di 12 milioni di persone che, senza interventi drastici, causerà un crollo del PIL pro capite del 22% rispetto a oggi.

Perché le aziende non trovano i lavoratori che cercano?

Siamo di fronte a un paradosso chiamato “mismatch”: da un lato la disoccupazione, dall’altro le imprese che non trovano personale. Secondo Confindustria, quasi il 70% delle aziende italiane ha difficoltà a reperire le competenze necessarie. Il sistema Excelsior di Unioncamere rivela che se nel 2019 la difficoltà riguardava il 26% delle assunzioni, oggi sfiora il 50%. Questo disallineamento ha un costo economico enorme: nel 2023 ha generato una perdita di valore aggiunto di 44 miliardi di euro, quasi 2,5 punti di PIL. Mancano profili tecnici e scientifici (STEM), ingegneri, sanitari e operai specializzati, a causa di un sistema formativo inadeguato e scollato dalle reali esigenze del mondo del lavoro.

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I salari stanno davvero recuperando il potere d’acquisto?

No, e questo è un punto dolente. Secondo l’OCSE, i salari reali in Italia hanno subito il calo più significativo tra le principali economie mondiali. A inizio 2025, nonostante gli aumenti nominali, il potere d’acquisto era ancora del 7,5% inferiore rispetto al 2021. L’impennata dell’inflazione post-pandemica ha eroso le buste paga. La leva fondamentale per il recupero è la contrattazione collettiva. Grazie a una recente ondata di rinnovi, la percentuale di lavoratori del settore privato coperti da CCNL aggiornati è passata dal 56% di fine 2024 al 65% di giugno 2025. Tuttavia, la crescita di contratti “pirata”, firmati da sigle poco rappresentative, minaccia questa dinamica positiva.

Quanto pesa il cuneo fiscale sulle imprese e sui lavoratori?

Enormemente. L’Italia si conferma tra i Paesi con il cuneo fiscale più alto dell’area OCSE. Nel 2024, il peso di tasse e contributi sul lavoro per un lavoratore single è salito al 47,1%, contro una media OCSE del 34,9%. Siamo al quarto posto dopo Belgio, Germania e Francia. L’aumento è stato paradossalmente innescato dalla crescita del salario medio, che ha superato la soglia dei 35.000 euro prevista per gli sgravi contributivi, annullandone di fatto il beneficio per molti lavoratori. Questa zavorra fiscale continua a deprimere i salari netti e ad aumentare il costo del lavoro per le imprese.

La produttività è il tallone d’Achille storico dell’economia italiana. Nel 2023 è addirittura diminuita del 2,5%, perché le ore lavorate sono aumentate più del valore aggiunto prodotto. In pratica, per molte imprese è stato più conveniente assumere manodopera a basso costo piuttosto che investire in tecnologia e innovazione. Questo schema, favorito dall’aumento dei prezzi e da salari stagnanti, ha intrappolato il sistema in un circolo vizioso. Esistono forti differenze settoriali, ma la tendenza generale è quella di una crescita trainata da settori a bassa intensità di capitale e basso valore aggiunto, che frena lo sviluppo a lungo termine.

Quanto è grande il problema del lavoro sommerso?

È una vera e propria piaga sociale ed economica. In Italia ci sono quasi tre milioni di lavoratori in nero (2.986.000 per la precisione, dato Istat 2022), che rappresentano il 12,5% degli occupati regolari. Il valore economico del sommerso ammonta a 200 miliardi di euro. L’incidenza è particolarmente alta nei servizi alle persone (39,3%), in agricoltura (17,4%) e nel settore turistico-commerciale (14,5%). Il lavoro irregolare ha conseguenze devastanti sull’equilibrio fiscale e contributivo, sottraendo risorse a sanità, istruzione e welfare, e creando una concorrenza sleale per le imprese oneste.

La sicurezza sul lavoro è ancora un’emergenza?

Sì, nonostante alcuni timidi miglioramenti. I dati INAIL dei primi sei mesi del 2025 mostrano un lieve calo degli infortuni sul luogo di lavoro (-0,6%), ma un drammatico aumento dei casi mortali “in itinere” (+32,7%), cioè durante il tragitto casa-lavoro. Sebbene l’incidenza complessiva degli infortuni per 100.000 occupati sia diminuita rispetto al pre-pandemia, le denunce di malattie professionali sono in forte aumento (+12%). Misure come la patente a crediti in edilizia sono un passo avanti, ma la vera sfida resta quella di una formazione capillare e continua, essenziale per costruire una cultura della sicurezza e proteggere la vita dei lavoratori.



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