Un nuovo studio del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica fotografa tutte le potenzialità del Ccus, la tecnologia che promette di catturare e stoccare milioni di tonnellate di anidride carbonica, evitando che finiscano in atmosfera. Per il governo è uno strumento chiave verso la neutralità climatica, soprattutto nei settori industriali più difficili da decarbonizzare.
Ha però dei limiti. La domanda è se il Ccus può davvero essere la risposta alla crisi climatica o se, al contrario, rischia di trasformarsi in un alibi per continuare a produrre CO₂ senza un piano a lungo termine.
Lo studio MASE su Ccus
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha pubblicato il suo studio sullo stato e le prospettive della cattura, utilizzo e stoccaggio della CO₂ in Italia, delineando un quadro tecnico per un settore destinato a crescere rapidamente. Il documento, necessario per via delle direttive Ue che obbligano lo stoccaggio entro il 2030, evidenzia come nonostante il calo delle emissioni registrato negli ultimi anni, il nostro Paese resti fortemente legato a settori cosiddetti hard-to-abate, cioè difficili da decarbonizzare, come cemento, acciaio e chimica.
Secondo le stime del MASE, il potenziale di stoccaggio geologico della CO₂ in Italia è alto: il sottosuolo nazionale potrebbe ospitare tra 1 e 5 gigatonnellate di anidride carbonica, principalmente in giacimenti di gas esauriti e formazioni saline profonde. Un patrimonio che, sulla carta, potrebbe coprire decenni di cattura industriale.
Sul fronte dell’utilizzo, lo studio prevede applicazioni in diversi comparti industriali, dal riuso della CO₂ per la produzione di carburanti sintetici alla sua trasformazione in materiali da costruzione. Il documento non nasconde che la vera sfida sarà infrastrutturale, perché servono:
- reti di trasporto (pipeline, terminali marittimi);
- impianti di compressione;
- siti di stoccaggio sicuri.
Non c’è ancora una stima del costo, ma c’è molto fa fare. Anche se Eni e Snam hanno già iniziato, per ottenere l’obiettivo sperato servono investimenti calcolati in miliardi di euro.
Cos’è e a cosa serve la cattura della CO₂
Il Ccus è un insieme di tecnologie che catturano l’anidride carbonica emessa da processi industriali o direttamente dall’atmosfera, per poi stoccarla in modo permanente (Ccs) o riutilizzarla in nuovi processi (Ccu).
Il MASE lo considera indispensabile per centrare la neutralità climatica al 2050, soprattutto per i settori industriali che non possono abbattere le emissioni con le sole energie rinnovabili o l’elettrificazione diretta. Per alcuni settori, come cementifici, acciaierie e chimica pesante sarebbe impossibile senza Ccus raggiungere la riduzione totale delle emissioni.
Il report sottolinea anche i potenziali impatti economici e occupazionali. Infatti nuovi impianti e infrastrutture potrebbero generare filiere industriali e posti di lavoro qualificati, ma che richiedono competenze specialistiche e una strategia normativa per attrarre investimenti.
Il ruolo dell’Italia
Sul piano operativo, l’Italia si muove in linea con le strategie europee. I principali progetti pilota sono guidati proprio da Eni e Snam, in collaborazione con partner internazionali. Tra questi c’è da sottolineare l’operazione di Eni Ccus Holding, venduta a Global Infrastructure Partners, fondo controllato da BlackRock, colosso finanziario accusato da organizzazioni per i diritti umani di investimenti in aziende coinvolte nel conflitto in Palestina.
Questa compenetrazione tra finanza globale e transizione ecologica solleva gli ormai noti dubbi su cosa sia davvero la sostenibilità e se la transizione lo sia solo su carta. È davvero “verde” un progetto che, pur riducendo emissioni, poggia su capitali provenienti da sistemi accusati di alimentare crisi e disuguaglianze? È qui che il Ccus mostra la sua doppia faccia, perché è sì uno strumento necessario per il clima, ma anche una potenziale operazione di greenwashing, utile a prolungare modelli produttivi ad alta intensità di CO₂ invece di metterli in discussione.
Il MASE indica come prossimi passi lo sviluppo di un quadro normativo stabile, incentivi per attrarre investimenti e la definizione di standard di sicurezza, ma il rischio che si faccia tutto con soldi provenienti da industrie tutt’altro che sostenibile è alto.
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