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Marocco: crisi climatica e agricoltura intensiva prosciugano le oasi


“Mi chiamo Fatima Amzil, ma mi piace presentarmi come una figlia dell’oasi e della palma da dattero, perché la mia identità è nel deserto e nella vita dell’oasi di Ferkla, che mi ha vista nascere e crescere. Un’oasi è una perla preziosa in mezzo a un mucchio di sabbia; serve grande sforzo per vedere il suo luccichio e riconoscerne il valore. Ma senza di essa, la sabbia ingoia ogni cosa. Così sta accadendo a Ferkla: la siccità l’ha colpita duramente e la sta divorando, palma dopo palma”.

Fatima Amzil appartiene ai popoli antichi delle oasi e viene da Ferkla El Oulia, che assieme a Ferkla As-Sofla, fa parte del territorio amministrativo della città di Tinejdad. Una delle ultime oasi del deserto marocchino, si trova in provincia di Errachidia, nella regione desertica di Drâa-Tafilalet, nel Sud del Paese. Con una superficie di 77.000 km2, Drâa-Tafilalet conta circa 20.000 abitanti e ospita le più grandi oasi del mondo. Vi trovano rifugio popolazioni che vivono lì da millenni e specie di piante e animali endemici. Fatima, ormai ventiseienne, lavora come insegnante di storia e geografia e assieme ad altri ragazzi e ragazze e all’Associazione dell’Oasi di Ferkla per l’Ambiente e il Patrimonio – Aofep, si batte per la salvaguardia della sua terra e delle oasi che ancora sopravvivono, per salvarle dall’oblio e per tutelare la storia e la cultura millenaria delle genti che le abitano.

Le oasi sono delle “roccaforti di vita nel deserto”, racconta Lahcen Kabiri, Presidente di Aofep e docente di geoscienze ambientali, patrimonio geologico e oasi presso l’università Moulay Ismaïl di Meknès. Si tratta di microclimi unici, dove la presenza dell’acqua ha permesso lo sviluppo di mosaici di biodiversità e cultura. L’essere umano in questi luoghi ha lavorato in sinergia con la natura, elaborando strategie agricole ed economiche e tradizioni culturali adatte a prosperare nella sfida continua con le sabbie del deserto. Oggi però l’agricoltura intensiva – la cui produzione è per gran parte destinata all’esportazione – si espande sempre più, comportando uno sfruttamento esasperato dell’acqua e mettendo in grave difficoltà l’agricoltura tradizionale. Le coltivazioni di datteri e argan per esempio, che generano rilevanti introiti economici, sono colture resistenti, ma comportano un altissimo consumo idrico e richiedono un uso massiccio e insostenibile delle risorse sotterranee. 

Aumenta la conflittualità tra comunità e agricoltori e imprese

In un contesto già delicato, “tutto ciò si somma agli effetti della crisi climatica, che aggrava la desertificazione” spiega Lahcen Kabiri, “le precipitazioni diminuiscono e diventano più irregolari – in alcune aree si registra un calo del 40% –, aumentano i giorni di caldo estremo e si intensificano fenomeni come la salinizzazione, ovvero l’accumulo di sali nei terreni irrigati, che li rende progressivamente improduttivi, e l’insabbiamento, cioè l’invasione delle oasi da parte della sabbia spinta dal vento, che soffoca le piante e altera gli equilibri ecologici”.

Con la scarsità di acqua e il degrado del suolo l’agricoltura collassa, mentre i villaggi e le città si spopolano. “Molte sorgenti e khettarat si sono prosciugate” continua Lahcen. Le khettarat — antichi canali sotterranei di irrigazione — sono ormai in gran parte inutilizzabili. Si preferisce la trivellazione meccanica, che aggrava però l’esaurimento delle falde. Aumenta quindi la conflittualità tra comunità vicine o tra agricoltori e imprese per l’accesso ai pozzi e alle ultime sorgenti rimaste attive. I pozzi tradizionali fino agli anni ’80 raggiungevano al massimo 10, o all’occasione 30 metri, oggi invece per trovare acqua bisogna arrivare in alcuni casi fino a 300 metri di profondità. “Le falde freatiche si abbassano e allora bisogna scendere sempre più giù, ma non si può scavare all’infinito”. 

Secondo la Banca Mondiale, le risorse idriche nazionali del Marocco sono calate del 30% negli ultimi sessant’anni, mentre le temperature medie sono aumentate di circa 1,7°C tra il 1971 e il 2017. La desertificazione che sta minacciando l’oasi di Ferkla si allarga a macchia d’olio in ogni angolo del Paese. In meno di un secolo il Marocco ha perso più di due terzi delle sue oasi, che un tempo coprivano il 15% del territorio: dieci milioni di ettari di terra divorata dal deserto e con essa anche due terzi dei 14 milioni di palme su cui si basa l’economia e la sopravvivenza locale e che sono muro naturale contro la desertificazione. L’oasi di M’hamid el Ghizlane, nel sud del Marocco, ne è un esempio drammatico: si sta riducendo di circa 90 metri all’anno, causando la scomparsa di aree fertili e mettendo a dura prova la sopravvivenza dei suoi abitanti. Anche a Ferkla il paradosso è evidente: “Attività umane spregiudicate hanno un impatto innegabile sulla desertificazione. Qui le piantagioni di palme da dattero – e quindi il consumo di acqua – sono aumentati nonostante la siccità. Questo porta a un ulteriore sfruttamento delle falde freatiche” racconta Fatima. “E un’oasi non può sopravvivere senza acqua”.


L’oasi è il mio essere e mi sento persa ogni volta che me ne allontano

Fatima Amzil

Rigenerazione e sviluppo tra formazione, agroecologia e lavoro femminile

A Ferkla, l’associazione AOFEP, fondata da Lahcen Kabiri nel 2000, lavora su progetti ambientali e piani di sviluppo sostenibile. Fatima e i ragazzi dell’associazione vegliano sulle acque di profondità e sulla gestione dell’agricoltura; organizzano corsi di formazione sul clima, sull’ambiente, sulla biodiversità, sull’uso dell’acqua. Assieme alla comunità valutano le esigenze più urgenti e fanno sì che si lavori insieme per la loro realizzazione: dalla riabilitazione degli antichi canali di irrigazione khettarat, al restauro dei sistemi idraulici. In alternativa all’agricoltura intensiva e ad alto consumo idrico, promuovono pratiche agroecologiche per la coltivazione delle palme da dattero, sotto la cui ombra si può far crescere anche qualche cereale.

Gli abitanti lottano fino all’ultimo per non andarsene. I giovani però, spesso sono spinti a emigrare a causa della miseria e della sempre maggiore scarsità di risorse. Interi villaggi vengono abbandonati, come nella piccola oasi di Aït M’hanned, vicino a Tighmert, dove sono rimaste solo quattro famiglie. “L’esodo — interno ed esterno al Paese — è molto diffuso, spinto da studio, lavoro o dalla ricerca di una vita migliore” spiega Fatima “per quanto mi riguarda, solo l’istruzione mi ha spinta ad andare in città: se avessi potuto finire gli studi a Ferkla sarei rimasta. È per questo che insisto sull’importanza dello sviluppo locale. Da piccola io stessa volevo andarmene, perché vedevo solo quello che mi mancava nel crescere in un’oasi povera. Ma con la maturità, ho sentito un legame sempre più forte. Oggi sono una donna che prova forza e amore nel vedere le palme e le tradizioni: l’oasi è il mio essere e mi sento persa ogni volta che me ne allontano”. 

Con lo spopolamento il tessuto sociale si impoverisce: si perdono conoscenze ancestrali, saperi agricoli e culturali. “Molte pratiche stanno scomparendo”, racconta Fatima, “per questo è essenziale valorizzare le tradizioni radicate come il folclore e le danze popolari collettive — Aḥidus, Bahbi, Baida”. Le donne giocano un ruolo fondamentale come custodi del sapere, spesso invisibile ma sostanziale. In quest’ottica, iniziative come la costruzione di ripari nei luoghi dove le donne vanno a prendere l’acqua, ha una valenza politica rilevante. I pozzi sono infatti dei veri e propri centri culturali, di scambio di notizie, di formazione, di progettazione, di emancipazione. Per raggiungerli bisogna camminare nel deserto e, con temperature che spesso raggiungono i 50 gradi, avere un po’ di ombra dove riposare e instaurare relazioni diventa vitale.

Il governo marocchino, consapevole dell’importanza economica, sociale, culturale ed ecologica delle oasi, ha avviato programmi nazionali di approvvigionamento idrico e tentativi di riforestazione. La Strategia Nazionale per la Sostenibilità delle Oasi (ANDZOA) e progetti come il “Great Green Wall” mirano a contenere l’avanzata del deserto. A livello locale, si sperimentano cactus come piante “nurse”, ossia per il loro potenziale nel supportare e stimolare la rigenerazione del suolo. Si investe molto anche nelle cooperative femminili, che trasformano i prodotti locali e diventano protagoniste del tessuto economico del territorio.

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Anche a Ferkla ne è nata una, volta alla produzione di tessuti artigianali tradizionali. Secondo Fatima, far conoscere Ferkla al turismo – purché attento e sostenibile – può rappresentare una concreta possibilità di salvezza per l’oasi, creando posti di lavoro e generando le entrate economiche necessarie per realizzare infrastrutture idriche efficienti. “Il turismo può e sta già portando benefici, la stessa Aofep lavora per la promozione eco-compatibile del territorio” dichiara Lachen “deve però essere ben gestito, adattato alla capacità del luogo e portato avanti con e per la popolazione locale, perché un turismo di massa non regolamentato avrebbe impatti gravissimi sulla fragilità ecosistemica e culturale delle oasi”.

Fatima insiste anche sui vantaggi culturali di scambi costruttivi con l’esterno: le comunità che vivono nelle oasi infatti sono storicamente gruppi chiusi, etnie che non si mescolano fra loro. Ma oggi per sopravvivere le oasi devono fare rete, collaborare, scambiare conoscenze e anche beni di sussistenza, aiutarsi nei periodi difficili: “le giovani generazioni dimostrano come si possa lavorare tutti insieme, superando le discriminazioni di razza e di genere. È un percorso e non succede tutto con uno schiocco di dita, ma sta accadendo. L’obiettivo è chiaro e condiviso e questo aiuta moltissimo anche a superare i pregiudizi”. Fatima è una donna, ma sa di cosa parla e guarda in faccia gli uomini quando dice la sua opinione, ha esperienza e competenza e ora anche gli uomini iniziano ad ascoltarla.

“Il futuro dell’oasi è incerto, come un quadro incompiuto”, riflette Fatima. “Credo che ci sia bisogno di cambiamento e resilienza per sopravvivere. Sogno che Ferkla diventi un modello vivente di oasi di nuova generazione, che unisca le innovazioni degli antenati alla creatività dei discendenti.”

Ferkla è uno specchio del destino delle oasi del Sahara. Un ecosistema fragile, ma vitale, oggi minacciato da una crisi idrica e climatica senza precedenti. Ma è anche un luogo di resistenza e speranza. Qui, come altrove, sono le voci locali capaci di inserirsi nella coralità del globale — come quella di Fatima Amzil — a custodire la memoria del passato e a indicare la strada per il futuro. “Perché l’oasi ti insegna che un essere umano può trovare la sua strada, anche nel cuore delle sabbie”.


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