Tra le parole “ipnotiche” che pullulano nel nostro rumore quotidiano c’è quella del “disincanto” delle giovani generazioni. La vulgata descrive, infatti, i giovani (entità più eterea di un’idea platonica, in verità), insomma le generazioni nate con il digitale, come fragili, risucchiati dall’entropia balorda dello smartphone, poco attenti al reale, incapaci di leggere la cartastampata, ascoltare buona musica, vedere un buon film nel cinema, e, soprattutto, lontani mille miglia dall’impegno politico e sociale.
Ma sarà proprio così? Alcuni fatti che sono scorsi sotto gli occhi di tutti nelle ultime settimane hanno sferrato qualche bel colpo a questa diagnosi sbrigativa e, tutto sommato, molto parziale. Un appuntamento globale che ha visto protagonisti i ragazzi ha preso le mosse a Nairobi sotto l’egida dell’Onu il 12 agosto, con la Giornata Internazionale della Gioventù 2025, un appuntamento annuale con i giovani di tutto il globo che quest’anno parla di “Azioni Giovanili Locali per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”. Si tratta di un progetto che sembra muoversi in controtendenza rispetto all’idea del disimpegno delle giovani generazioni, rivendicando l’inclusione dei ragazzi nelle politiche pubbliche a tutti i livelli. Certo, l’impulso viene dalle Nazioni Unite, ma la risposta è corale e autentica e la scelta del livello di prossimità, il “locale” come momento d’inclusione immediata, è apparso opportuno.
Solo qualche giorno fa parole di sorpresa e curiosità hanno condito i commenti sui giovani cattolici della spianata di Tor Vergata a Roma, nell’incontro di più di un milione di ragazzi provenienti da mezzo mondo, con un Papa Leone dal piglio “energetico”, in stile Woityla. Forse perché abituati ad incontrare una rappresentazione mediatica dei giovani che incrocia più spesso indolenze e nichilismo, ci siamo meravigliati per un incontro con le facce pulite dei “ragazzi del Papa”, così fuori dall’oleografia di una generazione solipsistica, raccontata come fosse negata a tutto ciò che somiglia ad un impegno verso gli altri. L’incontro con quelle “facce”, uno sguardo negli occhi dei giovani che già veniva raccontato in versi da Pasolini per dire dei fatti di Valle Giulia 1968 (con gli scontri tra i giovani borghesi, studenti, e giovani proletari, celerini), è molto più di un’analisi sociologica, perché ci mette immediatamente in sintonia con un pianeta spesso sconosciuto o conosciuto male.
Ma basta avere incrociato quella fascia giovanile che arriva fino ai 24/25 anni, magari nelle aule universitarie, per comprendere che le nuove generazioni sono molto di più che manipoli di intossicati dall’overdose di social: sono capaci di curiosità, sensibili all’altrui, s’impegnano volentieri nel volontariato e sarebbero persino affascinate dalla politica se solo la politica e i suoi attori sapessero guadagnare il loro rispetto e uscissero dalla modalità “digrignamento di denti” che usano oggi per raccontare il nulla perfetto. Dopo qualche anno di dormiveglia, indotto anche dagli sbandamenti causati dall’eremitaggio da covid, i nuovi giovani reclamano un nuovo protagonismo, e vogliono esprimerlo attraverso riferimenti etici condivisi, perché, a differenza di chi è portato da una vita già lungamente percorsa a conoscere la perdizione del cinismo, i giovani sono eroi “naturaliter”, capaci di attendere ad imprese sconosciute e impossibili per chi giovane non è.
In qualche modo questi ragazzi somigliano a quelli che nel ’68 insufflarono un soffio vitale in un mondo che cambiava vorticosamente ma che non concedeva loro il passaggio da una condizione di “oggetto di diritti” ad una nuova di “soggetto di diritti”, come si conviene ad ogni persona umana, a prescindere dalla sua età. I nuovi giovani, però, oggi sono soli: in quegli anni intellettuali del calibro di Marcuse, Adorno, Habermas, Althusser, Focault, Mac Luhan, Debord, il nostro Eco, tanto per fare qualche nome, offrirono i loro libri ad una generazione che imparò, così, a non anteporre il gesto al pensiero.
Ci fu anche chi sbagliò- alcuni in modo letale- ma quei ragazzi, la stragrande maggioranza, cambiarono il mondo in meglio, usando anche il medium più potente che l’epoca poteva offrire; la televisione, che portò la loro rivoluzione pacifica dall’America all’Europa, anche quella d’ Oltrecortina, all’Asia e persino all’Africa. Oggi di maître à penser in giro se ne vedono pochini e sembrano, peraltro, non riuscire ad avere l’autorevolezza necessaria per farsi ascoltare. È un peccato: fuori dalle banalità che si dicono e si scrivono sulle nuove generazioni e sul loro potenziale di futuro, occorrerebbe ricordare che nel globo esistono 1,2 miliardi di giovani tra i 15 e i 25 anni- con più alte percentuali in Africa e in Asia piuttosto che in Europa- in grado di liberare immense energie per il cambiamento. E questa è la grande risorsa.
Si tratta del 16% della popolazione globale, che passerà tra non molto tempo, ad assumere ruoli di leadership nel pianeta. Sono giovani che danno del tu alle tecnologie digitali, con cui sono nati, ma non vengono indotti alle necessarie dimestichezze con l’arte del governo. E questo è un problema. Dunque per loro fa fatica a manifestarsi un “pensiero pensato” con contenuti etici all’altezza del tempo e non esistono più “scuole” che allestiscano conoscenze necessarie per il governo della cosa pubblica. Come si farà? Ogni tanto vengo avvicinato da qualche mio studente che mi dice: “professore, mi piacerebbe impegnarmi in politica. Che devo fare?”. E un po’ mi vergogno a dare risposte inutilmente arzigogolate o altrettanto inutili silenzi.
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