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Consigli alla sinistra per rendere accettabile l’innovazione


Le resistenze all’introduzione delle innovazioni, più in generale alle riforme pro-concorrenziali, vengono da corporazioni e lavoratori dei settori maturi, le cui competenze e il posto di lavoro vengono messi in discussione. Nel medio periodo, l’impatto sulla crescita e sull’occupazione sarà positivo, ma non interesserà i perdenti di oggi. Cosa deve fare la sinistra che «ami il mercato» per non spingerle verso il non voto o verso miraggi sovranisti/populisti

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Lo scorso 8 luglio, sulle colonne di questo giornale, Andrea Lorenzo Capussela, contribuendo al dibattito sollecitato dalla lettera aperta di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia suggerisce ai progressisti una visione volta a invertire il declino economico e civile dell’Italia, imperniata su due elementi: la libertà “repubblicana” (contrapposta alla concezione “liberale”, meno sensibile alle asimmetrie di potere e alle disuguaglianze) e l’innovazione schumpeteriana.

Una visione, senza dubbio stimolante e in buona misura condivisibile ma parziale – pericolosamente parziale – almeno per quanto riguarda il suo secondo pilastro.

Non avendo le competenze per arricchire le considerazioni di Capussela in merito alle diverse concezioni di libertà, limito la mia breve riflessione alla centralità che l’innovazione deve avere per una prospettiva progressista. E, in particolare, alle politiche pubbliche che non possono non accompagnare la distruzione creatrice evocata da Schumpeter, le «innovazioni distruttive» motore della crescita.

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Viene fatto notare che gli ostacoli principali all’introduzione delle innovazioni vengono soprattutto dalle élite economiche in grado di influenzare le politiche pubbliche a difesa dei propri interessi, e dalle imprese minacciate dall’ingresso sul mercato di nuovi servizi o di nuovi prodotti. Il fenomeno noto come killer acquisition (sopprimere o fagocitare le innovazioni dei rivali, preferibilmente quando non sono ancora sviluppate), particolarmente diffuso nei mercati farmaceutici e digitali è in quest’ottica emblematico.

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Ma le resistenze all’introduzione delle innovazioni (e più in generale alle riforme pro-concorrenziali) vengono anche dalle categorie dei “perdenti”, a volte vere e proprie corporazioni (si pensi alle rendite dei tassisti o dei concessionari balneari), a volte dai lavoratori dei settori maturi, le cui competenze e il posto di lavoro vengono messi in discussione dalle innovazioni. Con ogni probabilità nel medio periodo, l’impatto sulla crescita e sull’occupazione sarà positivo ma non interesserà i perdenti di oggi.

Pertanto, se non si vuole che il richiamo all’innovazione schumpeteriana e alle auspicabili riforme concorrenziali più incisive allontani ulteriormente le categorie svantaggiate da una visione progressista, spingendole verso il non voto o verso miraggi sovranisti/populisti, la sinistra «che ami il mercato» (parafrasando il titolo di un bel libro di Claudio De Vincenti, Per un governo che ami il mercato) deve farsi carico dei “perdenti”.

Alle comprensibili, e in più di un caso giustificate, resistenze dei lavoratori preoccupati per l‘impatto occupazionale delle innovazioni non va tuttavia risposto con un ricorso eccessivo a politiche industriali meramente difensive, mantenendo in vita imprese a bassa produttività. Piuttosto, insieme allo Schumpeter della «distruzione creatrice» andrebbe riscoperto lo Schumpeter che, nel criticare la difesa a oltranza di settori obsoleti, ricorda che non c’è nessun buon motivo per un’uscita dal mercato traumatica, auspicando invece una «ritirata ordinata» (Can Capitalism Survive?, 1942).

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Più prosaicamente, significa che la promozione delle innovazioni schumpeteriane non può limitarsi a maggiori risorse per la ricerca e alla rimozione delle barriere all’ingresso di nuove imprese ma deve coniugarsi con la rimozione delle “barriere all’uscita” delle imprese meno efficienti, con politiche attive del lavoro (per quanto possibile, in grado di riqualificare i lavoratori dei settori obsoleti) e, soprattutto, con riforme del welfare tali da rendere socialmente accettabile la transizione e in grado di proteggere non solo i redditi ma anche la dignità dei lavoratori “perdenti”. Può non sembrare, ma si tratterebbe di riforme radicali con un’attenzione all’uguaglianza e ai lavoratori svantaggiati che una nuova visione per una sinistra che «ami il mercato» non può e non deve dimenticare.

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