TORINO. I ragazzi da un milione di euro si conoscono da una vita, eppure non potrebbero essere più diversi. «Eravamo compagni di liceo al D’Azeglio e non ci siamo mai persi di vista», dice Tommaso Seita, occhiali retró e bermuda. Cresciuto sulle colline di Revigliasco, il «nerd che giocava a Minecraft», innamorato dei computer e di YouTube, si è formato davvero nelle aule del Politecnico.
Alessandro Busso, il suo socio in Wibo, è l’opposto. Di Alpignano, «creativo, razionale e molto ambizioso», pensava di fare il medico, poi ha cambiato strada e oggi mette in campo le sue «doti diplomatiche» per provare a rivoluzionare il mondo della formazione.
Assieme, dalle Ogr di Torino, costruiscono connessioni tra imprese e manager di colossi globali: Nike, Spotify, Airbnb, Eataly, Uber, Google. «Abbiamo iniziato lanciando il giornalino della scuola, con i risparmi che avevamo messo da parte. Si chiamava “Officina”. Era patinato, opaco, in formato grande, facevamo concorrenza a quello ufficiale. All’ottavo numero stampavamo cinquemila copie, distribuite in quindici licei. Poi s’è trasformato in un magazine universitario: ci siamo trovati a guidare una redazione con una quarantina di autori, volevamo dare a tutti la possibilità di essere un giornalista. Siamo sempre rimasti in contatto, finché nel 2019 abbiamo fondato Wibo». Avevano appena compiuto vent’anni.
«L’obiettivo, allora, era un altro: rendere più democratici i quiz televisivi portandoli sul telefono, ogni sera alle ventuno e trenta. Nel 2020, con il Covid, gli utenti sono cresciuti molto, ma i ricavi no. Così abbiamo deciso di accantonare il progetto. L’azienda però è rimasta». Seita e Busso decidono di riprovarci: «Abbiamo usato “il motore” con cui gestivamo la community per proporre alle società una serie di giochi da usare per rendere più stimolante l’aggiornamento professionale». Non funziona neppure stavolta.
Nel 2022, un nuovo cambio di rotta, quello che loro chiamano “pivot”.
Dopo due cadute, finalmente si va. «Avevamo imparato tantissimo dagli imprenditori incontrati negli anni precedenti. Parlare con loro e con i “founder” è una cosa che ti dà valore. Ci siamo resi conto che la formazione d’impresa era ferma agli anni Novanta. E abbiamo intravisto un’opportunità: proporre dei corsi che non fossero tenuti dai formatori tradizionali, ma da manager e prime linee delle aziende più innovative, persone che raccontano ciò che mettono davvero in pratica da anni. Il primo che abbiamo contattato, e ci ha detto sì, è stato Oscar Farinetti».
Da quell’intuizione nasce la versione attuale di Wibo: una piattaforma da quattordicimilacinquecento iscritti che mescola esperienze, contenuti in pillole e docenze d’autore. Niente PowerPoint né slide, pochissima teoria da manuale. Solo casi reali, illustrati da chi li ha vissuti. «Gli appunti si prendono a penna, su fogli di carta. Così distrarsi è praticamente impossibile», spiega Busso. È un’urgenza, ragionano, confermata dai dati: secondo il modello scientifico della “Forgetting Curve”, il novanta per cento delle informazioni trasmesse durante un corso tradizionale viene dimenticato entro una settimana. Queste, invece, hanno maggiore possibilità di attecchire.
L’idea funziona. “Sifted”, il sito del Financial Times specializzato in nuove tecnologie, li inserisce nella classifica delle venti start-up a maggior tasso di crescita del Sud Europa. Non a caso i clienti arrivano in fretta, e sono tutti “pesanti”: Comau, Unicredit, Monte dei Paschi, Carrefour. «Oggi sono già centocinquanta. Siamo particolarmente forti con le imprese che hanno molto ricambio nei ruoli chiave». E anche gli investitori ci credono: dopo un round iniziale da duecentomila euro, prima dell’estate c’è stata un’iniezione di mezzo milione, «che abbiamo utilizzato per allargare la squadra» e spingere sull’intelligenza artificiale, la vera ossessione di Tommaso.
A guidare l’investimento, un gruppo di «business leader», molti dei quali già coinvolti da Wibo come insegnanti: tra gli altri, Andrea Incondi di Flix, Lorenzo Lagorio di EasyJet, Giacomo Trovato di Genertel, l’ex ad del Milan Marco Fassone, lo stesso Farinetti.
Seita, Busso, che cosa manca alle persone che vedete ogni giorno? «I nostri clienti cercano serenità. Devono trattenere le persone, sono spaventati dal futuro, magari ci sono rivali dalla Cina che fanno le cose più velocemente, e le competenze di sempre non bastano più», risponde Alessandro. «Penso che in questo periodo storico ci sia una enorme incertezza. Ci si chiede: “Cosa sarò tra cinque anni?”. La formazione, in qualche modo, ha un effetto salvifico. Noi siamo arrivati qui perché avevamo voglia di imparare dai migliori».
Nell’ala Tech delle vecchie officine ferroviarie torinesi dove si coltiva l’innovazione, gli amici del D’Azeglio guidano un team di una ventina di ragazzi e cercano di dare una risposta alla domanda di chi si rivolge a loro: dove saremo fra cinque, dieci, anni? «Per troppo tempo la voglia di affermarsi è stata considerata qualcosa di sbagliato. C’è un intero ecosistema che porta a questo tipo di atteggiamento. Ho letto un bellissimo saggio di Paul Graham (informatico e imprenditore, considerato il “guru dei nerd”, ndr). Scrive che ogni città del mondo ha una voce, con cui parla ai cittadini e li porta ad agire. Mi sono sempre chiesto quale sia la voce di Torino».
Qual è? «Accomodante, spesso elitaria, con poche aspirazioni, troppo comoda», sorride Busso. Ecco perché, dice amaro Seita, «il futuro è lontano da qui. Amo Torino, ma se continuiamo così, con questa avversione al rischio, resteremo il fanalino di coda».
Prospettive? «Questo territorio con i giusti accorgimenti ha un potenziale enorme. Milano è a due passi. Torino può aggregare culture e menti, ma deve trattenere le persone che possono renderla migliore, permettere loro di creare imprese. Spesso si disperdono. Ma noi vorremmo investire qui».
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