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Trump e Putin ad Anchorage tra fatti e percezioni


Proviamo a riflettere sul vertice di Anchorage tra Trump e Putin: siamo costretti a un atteggiamento socratico, sappiamo di non sapere. C’è incertezza su cosa davvero sia accaduto. Questa è la cifra dei nostri tempi e ancora di più della presidenza Trump. Allora soccorrono le impressioni (che è ciò su cui hanno puntato i protagonisti) e l’esperienza di ciascuno di noi, per me quella diretta di decine di riunioni del Consiglio Atlantico alle quali ho partecipato nei mesi precedenti e in quelli successivi al giorno dell’aggressione russa all’Ucraina. Non possiamo considerare i fatti di oggi senza ricordare il 24 febbraio del 2022, quando le strade dell’Occidente si riempirono di bandiere ucraine perché l’aggressione era chiara a tutti. Ricordo le riunioni con i massimi responsabili dell’intelligence americana che ammonivano sull’intenzione russa di attaccare militarmente mentre noi non ne eravamo persuasi e soprattutto non volevano crederci gli ucraini (eppure adesso c’è chi afferma che Zelensky ha voluto la guerra …), ricordo la riunione d’emergenza la mattina del 24 gennaio (che rimarrà nella storia della NATO) e i tanti incontri con i Capi di Stato e di governo e con i ministri degli esteri e della difesa. Sempre tutti ripetevano il mantra nothing about Ukraine without Ukraine”. Un principio, quello della sovranità ucraina nel determinare il proprio futuro, che deve accompagnarci nel tentativo di interpretare gli avvenimenti.

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Allora, come è andata in Alaska tra i due Presidenti?

È andata come a voi sembra che sia andata.

Entra allora in gioco un fattore cruciale, quello della percezione dei fatti, che, specialmente quando essi sono inconcludenti, ne determina non solo l’interpretazione ma anche la sostanza.

In Alaska si è fatta la storia? Forse un po’, ma andiamoci piano. Non è stata la notte dello sbarco sulla Luna.

Con Trump non è mai detta l’ultima parola. Certamente egli cerca la pace, non foss’altro che per ambizione personale. Per Putin invece la guerra è sempre un’opzione e la pace può essere solo un intervallo tra due guerre (o, secondo la sua grottesca definizione, “operazioni militari speciali”).

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In tale contesto è normale prestare grande attenzione al fatto di cronaca che forse diventa un mattoncino della storia, ma può essere opportuno fare zoom out e col grandangolo considerare meglio il contesto nel tempo e nello spazio.

Importante sarebbe arrivare all’obiettivo manifestato da Trump prima dell’incontro: cessate il fuoco ed avvio di un possibile negoziato con un prossimo incontro forse in Europa che includerà Zelensky. Ancora non ci siamo: ovviamente il presidente americano ha cercato di sottolineare i progressi compiuti e ha confermato l’intenzione di arrivare ad una riunione con il capo dello Stato ucraino, ma al momento non c’è nulla di sicuro. Eppure, è positivo aver compiuto un passo in avanti verso questi obiettivi ai quali prima o poi si dovrà arrivare. Ma a che prezzo?

Putin ha invece già ottenuto molto già nel momento in cui è sbarcato sul suolo americano. Per il presidente russo, dopo le umiliazioni percepite ad opera dell’Occidente nel decennio successivo alla dissoluzione dell’URSS, un obiettivo cruciale è sempre stato il recupero del rango di grande potenza. Su Putin, in Europa – ma non negli USA, che come la Russia non hanno aderito allo Statuto della Corte – dal marzo del 2023 pende un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale: adesso egli è stato ricevuto alla pari “dall’amico Donald” e questo è avvenuto in un incontro formale a due, senza altri comprimari che potessero inquinare la scena. Le dichiarazioni alla stampa pronunciate da Putin sono state attentamente cesellate dai suoi consiglieri (diversamente da quelle di Trump che ha scelto di usare lo stile colloquiale diretto per comunicare alla sua base). Putin ha così sottolineato la vicinanza non solo geografica dei due paesi (laddove l’Estremo Oriente tocca l’Estremo Occidente), ma anche il loro ruolo storico alla guida di quella che per Mosca rimane la Grande Guerra Patriottica. Un ruolo paritario di leader mondiali da recuperare. Putin vuole dare la percezione che questo stia avvenendo e rafforza questo messaggio con vari segnali. Tra essi possiamo forse includere la felpa con la scritta CCCP (l’acronimo in cirillico dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) ostentata dal Ministro Lavrov al suo arrivo, ma anche la pretattica delle voci che prefiguravano un incontro di 6-7 ore, facendo capire che si sarebbe parlato di tanti altri temi e non solo di Ucraina. Insomma, due superpotenze che trattano alla pari su ogni parte del mondo come avvenne a Yalta, questa la percezione che i russi vorrebbero affermare e che quindi, in questo confronto cognitivo, dovremmo respingere perché non corrisponde ai fatti. A meno che, accettando anche a causa dei nostri comprensibili timori questa impostazione, non finiamo per contribuire all’affermazione di profezie autoavveranti.

Qui entra in gioco un aspetto che direi è decisivo, quello delle percezioni.

Quando ero alla NATO eravamo tutti d’accordo che non si sarebbero potute prendere decisioni sulla testa del governo ucraino, ma lo dicevamo comunque nella sala del Consiglio Atlantico parlando di Ucraina senza che fosse seduto tra di noi un rappresentante ucraino. Era normale, come è normale che due leader, e questo vale per Trump e Putin come per ogni incontro internazionale, possano parlare ed anche elaborare piani sull’Ucraina e su vari altri temi, ma non decidere in assenza degli interessati.

Questo perché Anchorage non è stata Yalta (e non poteva esserlo). Il parallelo con la conferenza del febbraio 1945 con la quale, secondo alcuni (perché su questo non c’è accordo, ma di fatto i sovietici hanno imposto questa narrativa e, soprattutto, i suoi risultati concreti) decise l’assetto dell’Europa sulla testa degli europei è certamente inquietante ma non calzante. La conferenza di Yalta si è protratta per una settimana con la partecipazione dei tre leader a capo della coalizione antinazista: Stalin, Roosevelt e Churchill (con buona pace di De Gaulle che si lamentò per l’esclusione). Ad Anchorage in due hanno parlato per circa tre ore. Nel febbraio 1945 i russi erano a 80 chilometri da Berlino, in meno di tre anni avevano rovesciato le sorti della guerra annientando le armate tedesche ed avevano occupato gran parte dell’Europa centro orientale dopo un’avanzata di migliaia di chilometri, e nel giro di pochi mesi l’avrebbero occupata per intero. Si discuteva insomma di paesi completamente spazzati via dalla guerra, che erano diventati oggetto della storia. In oltre tre anni, invece, Putin non è riuscito ad occupare che una piccola parte dell’Ucraina, avendo subito cocenti sconfitte sul terreno e avendo dovuto rinunciare agli obiettivi iniziali della guerra. L’Alaska non è stata Yalta ma non deve neanche essere una Monaco, la conferenza del settembre del 1938 che, a prezzo di gravi rinunce di sovranità da parte cecoslovacca, riuscì ad evitare una guerra che poi arrivò comunque (come disse Churchill, si ebbe sia il disonore che la guerra). Questo è uno scenario che dobbiamo temere ma possiamo evitare, soprattutto se, rimanendo realisti, non cediamo alla narrativa russa.

Dopo oltre tre anni, la Russia oggi occupa meno del 20% del territorio ucraino. Soprattutto, va ricordato che un mese dopo l’attacco, a fine marzo 2022, i russi erano arrivati ad occupare circa un quarto dell’Ucraina, arrivando alle porte di Kiev. Ancora oggi, pertanto, nonostante le difficoltà ucraine a sostenere il conflitto, la Russia occupa territori inferiori rispetto a quelli che controllava all’inizio di quella che era impostata come una guerra lampo. I consiglieri di Putin puntavano su un collasso delle Forze Armate, del governo e del popolo ucraino e si sono trovati invece con un paese che con l’aggressione ha rafforzato, anche nella componente russofona, la sua identità.

La Russia cerca di avvalorare l’idea che ha vinto, ma non è vero. Il coraggio di Zelensky, che rifiutò di lasciare prudentemente la capitale minacciata dai russi, la determinazione del popolo ucraino e poi gli aiuti occidentali hanno consentito una resistenza sorprendente. Se adesso si dovesse avvalorare l’idea che l’Occidente abbandona gli amici, non ha perseveranza, si confermerebbe il detto dei talebani: “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Le conseguenze sarebbero ancora più disastrose della grave decisione del ritiro dall’Afghanistan, che certamente ha incoraggiato Putin, l’Occidente, che è la dimensione da considerare, pagherebbe un prezzo su scala planetaria e di portata epocale. Il resto del mondo ne trarrebbe la conseguenza che l’Occidente è una tigre di carta, che la lunga era del dominio occidentale sulla storia durata cinquecento anni è finita. Cosa succederebbe ad esempio a Taiwan?

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Veniamo allora agli obiettivi da conseguire. Occorre comunque porre fine alla carneficina e ogni guerra, in assenza di un chiaro vincitore che come abbiamo visto in queste circostanze non c’è, si deve concludere con un compromesso. L’obiettivo è la “pace”, ma quale pace? Questa parola da sola rischia di essere un esercizio retorico troppo spesso strumentalizzato. Occorre una “pace giusta”, l’obiettivo perseguito con coerenza e risultati concreti da due governi italiani consecutivi nel nostro contesto occidentale. Ma ormai un compromesso è necessario e infine si deve arrivare a una “pace giusta e possibile”. Il realismo è un principio fondamentale dell’attività politica: occorre parlare di pace giusta ma anche possibile.

Concludiamo infine con i protagonisti. Viviamo in una partita che si gioca nei tempi lunghi con Putin e Trump certamente protagonisti, ma nel contesto complessivo non sono i soli, ci sono molte biglie in movimento e molti attori in campo.

Tra i convitati di pietra il più notevole ad Anchorage è stato Zelensky, poi c’è quel gruppo un po’ variegato (ma se ci pensiamo bene è positivo che ormai esso sia considerato come un insieme) che è l’Europa, poi c’è la Cina (un’entità fondamentale perché tutti i teatri di crisi e tutti i temi sono interconnessi), ed infine gli altri, potremmo definirli il coro (un elemento che come vedremo è importante e va oltre il generico e mal definito “Sud globale”).

Verrà il momento in cui ciascuno di questi attori svolgerà un ruolo.

È importante che in questo movimento di azioni si mantenga il più possibile, ad onta delle difficoltà anche interne al nostro campo, l’unità dell’Occidente. Questo obiettivo, evidentemente al centro dell’impegno italiano, riguarda anche direttamente i nostri interessi nazionali, la possibilità di una convivenza pacifica secondo il diritto internazionale e il ruolo che possiamo conservare negli equilibri mondiali.

A tal riguardo la lontanissima Alaska ci ha ricordato una sfida che ci riguarda da vicino: Putin ad Anchorage ha voluto sottolineare il rilievo dello stretto di Bering che separa l’America dalla Russia. A causa del cambiamento climatico da quel canale di navigazione in futuro potrebbero essere trasportati flussi commerciali che invece adesso si indirizzano dall’Asia orientale verso il Mediterraneo attraverso l’Oceano Indiano. Sta a noi lavorare per rafforzare le rotte dell’Indo-Mediterraneo anche attraverso strumenti come il corridoio India – Medio Oriente – Mediterraneo (IMEC): il grande gioco che riguarda anche gli interessi delle famiglie italiane si svolge ovunque: dall’Alaska, all’India, ai nostri porti.



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