Regione Lombardia h presentato cinque progetto di cooperazione allo sviluppo in Africa nell’ambito del Piano Mattei
Un’alleanza dal basso fra i territori della Lombardia e quelli di Paesi africani come Kenya, Tanzania, Mozambico, Tunisia, per far decollare iniziative di sviluppo nell’ambito del Piano Mattei.
Sono già cinque i progetti di cooperazione che Regione Lombardia ha presentato a Roma, al ministero degli Esteri, e che attendono il via libera a settembre, come spiega il sottosegretario regionale con delega alle relazioni internazionali Raffaele Cattaneo: «Abbiamo messo attorno al tavolo Ong, imprese, università, amministrazioni locali, iniziando a lavorare insieme e mettendo a punto progetti nati raccogliendo istanze e bisogni provenienti dalle comunità dei Paesi africani, con un approccio dettato dalla sussidiarietà».
Regione Lombardia riprende quindi l’iniziativa sul fronte della cooperazione internazionale che soprattutto in passato l’aveva contraddistinta…
È sempre stata all’avanguardia nel far sì che la cooperazione allo sviluppo avesse anche una dimensione territoriale, decentrata, che non fosse solo una prerogativa dello Stato. E questo vale anche per il Piano Mattei. Stiamo lavorando – come Lombardia siamo un po’ capofila di tale azione – perché anche le regioni possano avere uno spazio all’interno del piano per iniziative territoriali, in particolare nel campo della cooperazione decentrata.
Quali sono i vantaggi di una cooperazione decentrata?
Pensiamo solo al fatto che quando si sviluppano progetti che sono frutto di relazioni fra le comunità locali queste iniziative hanno mostrato di essere maggiormente in grado di mettere in moto azioni di sviluppo reale, rispetto alle azioni intraprese a livello nazionale. E questo perché lo sviluppo nasce dal basso.
Vuol dire che funzionano di più i progetti delle regioni di quelli dello Stato?
Voglio dire che vanno benissimo i progetti a livello di Stati nazionali o di grandi organismi internazionali multilaterali, ma se non si riesce a innescare un percorso di sviluppo che parta e coinvolga il territorio il rischio è che poi queste iniziative non mettano radici. È in forza di questa idea che lo sviluppo parte dal basso e non si cala dall’alto, di questo approccio fondato sulla sussidiarietà, che la Lombardia storicamente ha sempre investito molto nella cooperazione a partire da quando Roberto Formigoni era Governatore.
Con la pandemia queste iniziative si erano un po’ rallentate per ovvie ragioni. Perciò all’inizio di questa legislatura una delle priorità che, avendo la delega alle relazioni internazionali, ho voluto indicare è stato proprio il rilancio della cooperazione allo sviluppo e l’abbiamo fatto con una modalità nuova.
Concretamente cosa avete fatto?
In passato la cooperazione era concepita come attività degli specialisti, cioè delle Ong o di quelle che adesso vengono chiamate Osc (organizzazioni della società civile), che fungevano da agenzie che si occupavano di fare i progetti e di metterli a terra. Se noi però guardiamo la nostra esperienza, in Lombardia e in Italia, vediamo che lo sviluppo non è frutto di qualche specialista che fa un progetto, ma è figlio della capacità di mettere in moto i soggetti che sul territorio collaborando fra di loro possono effettivamente far partire un percorso virtuoso.
Chi sono questi soggetti?
Anzitutto le imprese, poi le autorità istituzionali del territorio e coloro che hanno la conoscenza, quindi università, centri di formazione, centri di ricerca. Già da noi la collaborazione fra questi soggetti è indispensabile per mettere in moto percorsi di sviluppo. A maggior ragione se si pensa all’Africa, visto che stiamo parlando del Piano Mattei, non si può ignorare che tale dinamica là è ancora più imprescindibile.
La prima cosa che perciò abbiamo fatto all’inizio della legislatura in Lombardia è stata la costituzione di un tavolo multiattori per la cooperazione allo sviluppo che coinvolgesse le Ong ma fosse aperto anche al mondo delle imprese attraverso le varie rappresentanze, alle università e agli enti locali. È questo tavolo che ha fatto da cabina di regia e ha messo in moto una serie di progetti che potessero trovare un partenariato ampio nell’ottica di una cooperazione non più demandata solo a chi ha il know how specialistico per la progettazione.
Sia chiaro non c’è nessuna diminuzione del ruolo degli specialisti, ma insieme a loro abbiamo voluto coinvolgere imprese, università e istituzioni del territorio. E questo ha dato vita a progetti che oggettivamente, a mio parere, ma anche a giudizio di quelli che ci hanno lavorato, hanno alzato la qualità delle proposte.
Come ha risposto alla vostra iniziativa il ministero degli Esteri?
Devo dire che sia nel viceministro Cirielli, che ha la delega alla cooperazione, sia nel direttore generale Stefano Gatti, che nel direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione Marco Rusconi, ho trovato degli interlocutori molto attenti e consapevoli dell’opportunità di muoversi in tale direzione. Sono diventati degli alleati in questo percorso. Si è creata una sinergia che ha portato allo stanziamento di un fondo destinato ai progetti delle regioni e dei territori (ma sempre coordinati dalle regioni) di 40 milioni di euro nell’ambito del Piano Mattei.
Alle regioni è stato chiesto di mandare i loro progetti a Roma per valutarli ai fini dell’assegnazione delle risorse. Si tratta di un fondo che dovrebbe essere riconfermato anche negli anni a venire. Una decisione che ha permesso di superare la logica dei bandi con cui finora venivano assegnate le risorse.
Qual è il limite dei bandi?
Nei bandi conta quasi di più com’è scritto un progetto che non quali e quanto sono credibili gli attori che lo devono realizzare. È come se in una squadra di calcio contasse di più il modulo teorico di gioco che non i giocatori che puoi schierare. Noi abbiamo molto contestato tale approccio e abbiamo trovato interlocutori attenti a questa nostra considerazione.
Lo stanziamento di 40 milioni è adeguato per far partire i progetti?
La Lombardia quando io sono arrivato aveva uno stanziamento sul proprio bilancio molto ridotto. Adesso abbiamo circa 500 mila euro all’anno di risorse proprie. Ovviamente se si vuole parlare di progetti importanti si va nell’ordine di milioni di euro e con le risorse regionali avremmo potuto fare ben poco. Questo fondo nazionale ci mette in condizione di poter competere con progetti che nel frattempo in Lombardia abbiamo sviluppato insieme al tavolo multiattori.
Parliamo dei progetti. Può dettagliare il loro contenuto?
C’è anzitutto un progetto pilota che riguarda il Kenya, nel quale sono state coinvolte due imprese lombarde, una già presente da tempo nel Paese africano, mentre l’altra è una start-up. Entrambe erano già impegnate in iniziative di agricoltura sostenibile fatta con criteri avanzati e con standard di qualità per valorizzare i prodotti locali. Ho voluto fortemente partire dal coinvolgimento delle imprese proprio perché il modello lombardo di sviluppo è caratterizzato dalla forza, dalla creatività e dalla diffusione delle nostre aziende. E questo è un valore che può essere esportato.
Insieme ci sono Avsi, un’ong nota e riconosciuta da tutti per la sua qualità, e la fondazione E4impact, nata all’Università Cattolica attorno al professor Mario Molteni, che oggi è l’esperienza di formazione imprenditoriale e professionale di più alto livello presente in Africa, dove sta lavorando in oltre 20 paesi. A loro si è aggiunto Cesvi, storica Ong di Bergamo. Ecco con questi attori è stato messo a punto un progetto che esemplifica quella modalità di coinvolgimento del territorio nelle sue varie articolazioni di cui ho detto prima.
Come sarà finanziato?
Una parte del progetto sarà finanziata con fondi della cooperazione e un’altra con gli strumenti a disposizione delle imprese. Così su questo progetto abbiamo coinvolto Cassa depositi e prestiti e l’Unido (l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale). La cooperazione si integra quindi con modelli di sviluppo più tradizionale, agendo su livelli diversi con l’obiettivo che il progetto possa attecchire. Per esempio se si fa un’iniziativa che coinvolge, come in questo caso, 30mila agricoltori occorre avere una rete di servizi sociosanitari, assistenziali che metta in moto sul territorio una dinamica di sviluppo. Ma questo è solo il primo step.
Gli altri progetti quali sono?
Come conseguenza del coinvolgimento dei diversi soggetti del territorio nel tavolo regionale è nata una rete formata da 11 università lombarde su 14, quindi quasi tutte, che ha dato vita a tre progetti per la costruzione di centri di trasferimento di conoscenza. Anche qui poi a loro volta sono state coinvolte altre realtà, Ong, imprese, centri di ricerca.
Questi progetti sono basati rispettivamente in Tunisia, Tanzania e Uganda. La novità è che per la prima volta si sono messe intorno allo stesso tavolo a lavorare su un progetto comune così tante università. Analogamente dal mondo delle Ong lombarde, che abbiamo coinvolto attraverso i loro coordinamenti, sono venuti altri progetti, che a loro volta coinvolgono amministrazioni locali, università, imprese.
Uno è rivolto al Mozambico e un altro al Kenya. In questi ultimi progetti si guarda soprattutto alla dimensione sociale, al sostegno ai lavoratori, all’accompagnamento della formazione dei lavoratori di fascia più bassa, all’affiancamento di persone in difficoltà. In questo momento abbiamo quindi sul tavolo del ministero a Roma cinque progetti: il nostro pilota sul Kenya, i primi due delle università, in Tanzania e Tunisia, e i due che hanno come capofila le Ong, in Mozambico e in Kenya.
Progetti dunque che vanno a intervenire su piani diversi…
Sono figli della diversa sensibilità dei soggetti che li propongono come capofila. Quello che voglio sottolineare è che ognuno di questi progetti non è limitato al capofila, cioè solo alle Ong o alle università, ma coinvolge una pluralità di soggetti.
Il coinvolgimento di più attori diventa una precondizione per dare vita al progetto…
Esattamente, l’aspetto più interessante è questo metodo di lavoro che dimostra una volta di più che lo sviluppo non si cala dall’alto, ma si genera dal basso. E che per essere autentico e mettere radici ha bisogno di far lavorare insieme una pluralità di attori, cosa non facile, né scontata, perché la “lingua” che parla ciascuno di questi è diversa. Il contributo della regione è stato soprattutto quello di favorire il dialogo e la omogeneizzazione dei linguaggi dei diversi soggetti.
Quando si vuole ragionare in chiave sussidiaria il primo compito delle istituzioni non è calare dall’altro la loro idea, ma ingaggiare dal basso gli attori protagonisti dello sviluppo e favorire il fatto che possano parlarsi, incontrarsi, lavorare insieme, tirar fuori loro la proposta che poi devono mettere a terra.
Una delle critiche che, in particolare dall’Africa, viene fatta ai Paesi più sviluppati, è che questi vogliono in qualche modo imporre il loro modello di sviluppo, una sorta di neocolonialismo culturale per cui io che sono bravo ti spiego come devi fare…
I progetti menzionati nascono tutti da istanze, da richieste, da bisogni delle comunità keniote, mozambicane, tunisine, ecc. Mi pare l’opposto di qualunque intento di colonizzazione. Questa idea bottom up, e non top down, della cooperazione allo sviluppo declina bene lo spirito del Piano Mattei.
(Piergiorgio Chiarini)
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