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Sergio Scalpelli: «Ora non si metta sotto processo l’intero modello Milano. Ha portato trent’anni di sviluppo»


di
Gianni Santucci

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Sergio Scalpelli, già presidente della Casa della cultura, dirigente di Fastweb, fondatore de Il foglio, era in Comune (assessore nella prima giunta Albertini) quando quel «modello» nasceva

«Sono un ultrà del modello Milano».
Qualcuno, dopo le ultime inchieste, lo identifica in un affarismo sfacciato e prepotente.
«E sbaglia, clamorosamente. Giudizi tipo “le mani sulla città” sono inaccettabili. Le indagini seguono il loro corso, ma vanno tenute ben separate dall’idea che vada fatto un processo al modello Milano». 
Sergio Scalpelli, già presidente della Casa della cultura, dirigente di Fastweb, fondatore de Il foglio, era in Comune (assessore nella prima giunta Albertini) quando quel «modello» nasceva.

Cosa c’è da difendere?
«Primo: in un Paese di politica sempre più radicalizzata e populista, siamo di fronte a un caso unico di continuità amministrativa».




















































Ne tracci la cronistoria.
«Nasce con Albertini a fine anni Novanta, prende corpo con la legge regionale sull’urbanistica dopo il Duemila, arriva a Expo e continua con le amministrazioni di centrosinistra».

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Qual è l’idea di fondo?
«L’impostazione di un rapporto tra pubblico e privato molto efficace, e molto controllato. Le regole fissate da Albertini di fatto sono rimaste e hanno portato forza e trasparenza».

Non le sembra che quest’ultimo concetto stoni di fronte a ciò che sta emergendo dalla Procura?
«Parlo del modello Milano. Guardiamo cosa ha portato alla città. Eccezionale capacità di attrarre investimenti. Decenni di crescita. Ruolo di capitale delle start up e dell’innovazione. Decine di migliaia di studenti internazionali. Turisti. Eccellenze mantenute e sviluppate: la moda, il design, le università. È poco?».

E gli effetti negativi?
«Non vanno negati. Ma senza perdere misura e coscienza dello scenario nella sua ampiezza: di fronte alla crescita della città negli ultimi trent’anni, vogliamo mettere questo modello di sviluppo sotto processo pubblico?».

E la speculazione?
«Sento molte polemiche sui fondi di investimento vocati solo ed esclusivamente al profitto. È ovvio, investendo denari, che seguano logiche di profitto. Ma enormi pezzi di città dismessi, ferite urbane come in Garibaldi-Repubblica, sono diventati emblema di modernità globale. E ciò è avvenuto grazie alla forza di una efficace collaborazione tra pubblico e privato».

È sufficiente tutto questo per bilanciare gli aspetti di crisi?
«Le grandi trasformazioni sociali ed economiche portano anche effetti perversi, inaspettati. Vanno governati. Sarebbe il compito della politica. A partire da un tavolo per la gestione dei cantieri, la prima cosa da fare per evitare che si generino tensioni».

Cosa fa davvero da contraltare al modello Milano?
«Il costo dell’abitare, un problema in buona parte legato all’attrattività. La domanda è molto forte e i prezzi degli affitti crescono. Di fronte a questo, è un fatto altrettanto lampante che siano necessari affitti contenuti, per tenere a Milano giovani e famiglie in formazione. Su questo la politica dovrebbe dare risposte, senza dividersi per cavalcare la questione giudiziaria».

La collaborazione con i grandi fondi di sviluppo immobiliare non sarebbe stata l’occasione per dare più equilibrio rispetto all’attuale aumento delle disuguaglianze sociali?
«I partiti politici sono deboli. Il riequilibrio, nel modello Milano, non ha avuto un peso sufficiente. Una buona politica, in entrambi gli schieramenti, dovrebbe avere la capacità di lavorare con gli investitori per portare una parte di ciò che viene costruito, o delle risorse che si generano, verso la popolazione delle fasce sociali con redditi medi o medio-bassi, che non riescono più a stare a Milano».

Vale per entrambe le parti politiche?

«Purtroppo ormai diamo per scontata la debolezza dei partiti, e la sottovalutiamo. Così come sottovalutiamo lo sfaldamento dei corpi intermedi. I partiti forti, sia di governo che di opposizione, discutevano al proprio interno tutte le grandi scelte di sviluppo, che così diventavano il portato della discussione pubblica. Ormai non esiste quel radicamento. Governare i cambiamenti diventa più complicato».

Qual è stato il più grave errore del centrosinistra?
«Non ha avuto la capacità di dare gli indirizzi di fondo rispetto alle questioni sociali emergenti».

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E il centrodestra?
«Dovrebbe interrogarsi sul perché sia venuta meno la capacità che ha avuto di definire una rotta di sviluppo in grado di richiamare investimenti e strutturare grandi politiche pubbliche».

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18 agosto 2025 ( modifica il 18 agosto 2025 | 07:22)

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