Secondo Jane Gaston quel che conta è l’azione concreta, non le etichette ecologiche
Jane Gaston, alla guida del cluster dedito alla decarbonizzazione Net Zero North West, lancia un messaggio chiaro: «Dobbiamo smettere di usare il termine “green”». Una provocazione che invita a riflettere sulla retorica ambientalista e a puntare su innovazione e concretezza.
Il motivo del rifiuto
Non è che Jane Gaston abbia improvvisamente mutato il suo atteggiamento ecologista. Nel suo ruolo alla guida di Net Zero North West, ha acceso sempre i riflettori sull’importanza di tecnologie come l’idrogeno a basso contenuto di carbonio, la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCUS), le energie rinnovabili e le reti intelligenti. Jane Gaston è una figura chiave nel panorama della transizione ecologica industriale britannica, con una carriera costruita sul connubio tra sviluppo territoriale, energie sostenibili e infrastrutture innovative, sempre con uno sguardo verso l’efficacia concreta delle soluzioni.
La critica che lei ha sollevato in questi giorni è tranchant: la parola “green” è diventata talmente inflazionata da aver perso efficacia. Troppo spesso viene usata come certificato spicciolo per progetti che, sulla carta, sembrano sostenibili, ma nella realtà sono solo un esercizio di facciata. Meglio dunque concentrarsi su azioni reali, i temi cui accennavamo prima: l’efficienza energetica, l’idrogeno a basso tenore di carbonio o la cattura della CO₂. Soluzioni che non hanno bisogno di etichette, ma di risultati tangibili.
Oltre il “green”: perché serve un linguaggio più efficace
Interventi concreti vs. marketing verde
Il rischio dell’“etichetta verde” è che diventi un vestito vuoto: progetti presentati come sostenibili, ma privi di impatto misurabile. Puntare su risultati verificabili — ad esempio, riduzione delle emissioni, risparmio energetico, creazione di posti di lavoro locali — rende la comunicazione più credibile.
Focus sugli obiettivi, non sugli slogan
Termini come “green” o “net zero” possono nascondere divergenze sostanziali: senza definizioni chiare, diventano slogan fragili. È meglio parlare di “riduzione X di CO₂ entro il 2030” o di “investimenti in energy tech a emissioni zero”, rendendo i progetti comprensibili e verificabili.
Anche Chris Stark, ex capo del Climate Change Committee, lamentava sul The Guardian come “net zero” fosse diventato politicamente divisivo e poco utile.
Diversificare i termini per riflettere la varietà delle soluzioni
Invece di “green”, in Gran Bretagna si iniziano a usare espressioni come “low-carbon”, “decarbonizzazione industriale”, “transizione energetica”, “clean tech”, “soluzioni resilienti”. Ogni termine racconta una specifica area di innovazione con maggiore precisione.
Guardare al futuro
Jane Gaston sottolinea come le tecnologie più entusiasmanti siano spesso quelle che ancora non conosciamo. Usare termini generici rischia di mettere in ombra le innovazioni emergenti, come materiali avanzati, approcci digitali o nuovi vettori energetici che guideranno la vera rivoluzione industriale.
Ripensare il linguaggio per cambiare il futuro
Per realizzare un cambiamento concreto servono parole nuove, più accurate e meno usurate. Se pensiamo alla diffusione incontrollata del “greenwashing” il termine “green” può in realtà nascondere più di quanto dovrebbe promettere, mentre un linguaggio orientato agli obiettivi e alle soluzioni rende le proposte più immediate e praticabili. Come insegna il lavoro di Net Zero North West guidato da Jane Gaston, la decarbonizzazione efficace nasce dall’innovazione, dalla chiarezza e da impegni misurabili, non dagli slogan.
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