Il processo di transizione digitale ha un costo elevato. La digitalizzazione implica, infatti, che il funzionamento degli stati, ed il conseguente esercizio dei diritti, avvenga mediante l’uso di dispositivi e canali telematici. L’accelerazione impressa al processo di informatizzazione è avvenuta, però, in uno stato di euforia collettiva che ha impedito finora di metterne a fuoco le ricadute possibili sulla vita delle istituzioni e sull’esercizio delle libertà fondamentali.
Non si è prestata la necessaria attenzione sugli effetti derivanti dalla concentrazione dei servizi cloud infrastrutturali presso un ristretto numero di piattaforme statunitensi (Amazon, Microsoft e Google) in termini di vera e propria sottomissione digitale. La zelante adesione ai piani di transizione digitale è avvenuta senza adeguatamente considerare la sostanziale incapacità delle istituzioni statali di controllare e gestire, con la continuità necessaria, le proprie risorse digitali, intese come dati, infrastrutture, tecnologie e servizi.
Nei primi mesi del 2025, si è verificato un episodio che illustra con chiarezza come la dipendenza europea dalle piattaforme digitali statunitensi possa trasformarsi in vulnerabilità geopolitica. A metà febbraio Microsoft ha disattivato l’account di posta istituzionale del procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Ahmad Khan, privando la CPI di una canale di comunicazione fondamentale.
La disattivazione è stata disposta in esecuzione dell’Ordine Esecutivo 14203 “Imposing Sanctions on the International Criminal Court”, firmato il 6 febbraio 2025 dalla Casa Bianca. L’atto presidenziale con il quale, dalla stanza ovale, è stato disattivato, d’imperio, l’account della Corte dell’Aia, è stato emesso sulla base dell’ International Emergency Economic Powers Act. È stata così disposta, in relazione ai procedimenti in corso per crimini di guerra comprensivi di indagini sul genocidio in corso a Gaza, una sanzione nei confronti del procuratore della CPI dagli effetti mutilanti ed immediatamente esecutivi.
La disattivazione immediata si è resa possibile stante la concentrazione in mano statunitense delle infrastrutture digitali cui è necessario fare ricorso, su scala globale, per informatizzare ogni anfratto della vita civile e dell’esistenza personale e collettiva. La vicenda, sebbene gravissima, non ha ricevuto dalla stampa il risalto che è stato riservato, invece, alla mancata consegna del generale libico al-Masri.
Eppure si trattava di questione gravissima, implicando l’interruzione del servizio di un ufficio giudiziario sovranazionale che è stato, con un click, privato temporaneamente di un canale di comunicazione, segnalando a governi e imprese di ogni continente che un singolo provvedimento amministrativo statunitense può istantaneamente ripercuotersi su infrastrutture essenziali per la tenuta dello Stato di diritto.
Occorre allora prendere coscienza che siamo precipitati nella progressiva era della sottomissione digitale, dove l’Europa versa in una condizione tecnologica di assoluta irrilevanza. In sostanza, affidando il funzionamento di istituzioni e servizi alle infrastrutture digitali, l’Europa si è stretta da sola la corda al collo.
Non ci sono, allo stato, alternative. Se Amazon, Microsoft, Google, anche per ordine esecutivo della Casa Bianca, decidessero di staccare la spina (per ragioni politiche, economiche, strategiche o anche solo di business) ci ritroveremmo con server spenti, dati bloccati e apparati, servizi e istituzioni paralizzati.
E dire che il continente paga già ogni anno un salatissimo pedaggio di 250 miliardi di euro per usare le autostrade digitali di Amazon, Google e microsoft. Peraltro, i prezzi dei servizi cloud, come ciascuno può constatare, aumentano vertiginosamente ogni anno, generando un fenomen già noto come techflazione.
E non è possibile non pagare quanto ogni anno ci viene estorto, in termini di aumenti sulle tariffe dei servizi digitali, derivandone, in caso contrario, il mancato esercizio dei diritti e delle attività fondamentali che oggi presuppongono l’obbligatorio impiego delle piattaforme digitali. L’unica alternativa sarebbe quella di affidarsi alle piattaforme cinesi, cadendo dalla padella alla brace, viste le prevedibili pesanti ricadute, in termini di censura, che ne conseguirebbero all’istante.
L’Europa si illude di risolvere la questione sempre mediante la scritture di regole, perché nella produzione legislativa siamo maestri. Peccato che senza i giganteschi investimenti necessari a realizzare server, chip, cavi sottomarini e data center autonomi, ogni soluzione per uscire dalla condizione di sudditanza nella quale ci siamo entusiasticamente consegnati, è del tutto illusorio. Microsoft ha celebrato i 4mila miliardi di capitalizzazione, mentre l’Ue ha previsto nella bozza di bilancio 2028 – 2032 la costituzione di un fondo di 50 miliardi per l’innovazione.
Avendo intrapreso, a tappe forzate, il processo di digitalizzazione della vita civile, l’Europa deve riconoscere che la sfida di sistema si gioca sul piano della capacità di archiviare, conservare e processare i dati che fanno funzionare ospedali, uffici, questure, impianti, caserme, aziende, insomma interi stati. È urgente sottrarsi allo strangolamento di una moderna forma di colonizzazione algoritmica, pericolosa perché tanto letale, quanto seducente e silenziosa.
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