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Transizione, il paradosso del green


I “fondi di magazzino fossili” rallentano la transizione

di MICHELE GOVERNATORI, Responsabile Power & Gas, ECCO Think thank

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Stavo guidando uno scooter nella fiumana del traffico lento e impressionante di Ho Chi Min city nel Vietnam meridionale non lontano dal delta del Mekong. Ondeggiavo tra la sensazione d’insicurezza in mezzo a tutto quel casino e il fatalismo sul fatto che seguire il flusso non fosse poi così difficile malgrado l’orda di clacson provenienti da ogni direzione. Mi godevo l’aria calda e relativamente secca del dicembre vietnamita, ma purtroppo respiravo anche chissà quanto inquinamento. Già, perché quei milioni di scooter strombazzanti e occupati perlopiù da giovani in maglietta erano pressoché tutti a combustione, nemmeno fossimo a Roma. Qualche giorno prima invece ero in Cina dove i motorini con motore tradizionale sono ormai una rarità e credo del tutto banditi dalle metropoli.

Un articolo pubblicato su “The Economist” lo scorso febbraio riferisce come i produttori di auto cinesi, in risposta ai dazi statunitensi, si preparino a esportare ancora di più in Russia, Europa e resto del Sud-est asiatico. Ma quante delle auto cinesi complessivamente esportate sono elettriche? «Circa un quarto», scrive “The Economist”. Insomma, quel che avevo notato con gli scooter, vale anche con le auto: il leader mondiale dell’auto elettrica (intende rimanerlo e ha massicciamente investito per questo) esporta ancora molte auto a combustione anche poco fuori dai propri confini. Così com’è vero che la Cina, che oggi investe in energia il doppio dell’Europa e installa ogni anno sul suo territorio la maggioranza assoluta della nuova capacità di produrre elettricità verde del mondo intero, mantiene la stessa leadership con le centrali a carbone. (Ma per la prima volta nei primi mesi del 2025 le emissioni da generazione elettrica in Cina sono calate e secondo “The Economist” l’intero Paese potrebbe aver superato finalmente il picco delle emissioni dannose al clima).

Si direbbe, quindi, che la disponibilità di tecnologie avanzate – in questo caso rispetto alla sostenibilità ambientale – non comporti automaticamente la dismissione accelerata di quelle arretrate. Troviamo esempi anche da noi in Italia: a causa di folli sussidi di retroguardia, oggi, gli stessi produttori di pompe di calore elettriche, più efficienti e pulite, vendono e promuovono ancora le caldaie a gas.

Un paper dell’economista Hans Verner Sinn una quindicina d’anni fa mostrò come la consapevolezza di norme future più stringenti in termini di tassazione delle emissioni di CO2 renda razionale per le imprese petrolifere accelerare, anticipandola, l’estrazione di idrocarburi.

Comportamenti economicamente razionali: fare soldi finché si può con prodotti già sviluppati, in attesa che quelli nuovi coprano tutto il mercato. Ma controproducenti rispetto alle politiche di transizione, se queste ultime non sono abbastanza furbe da impedirle o renderle impraticabili.

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Restando sulla tassazione delle emissioni dannose, economisti come la star dell’MIT Daron Acemouglu sostengono che essa non basti a innescare una transizione rapida ed efficiente senza la compresenza di altre norme più impositive, per esempio standard tecnologici ambientali.

Il messaggio al legislatore è: se stai incentivando tecnologie future perché ne ritieni urgente l’adozione, forse dovresti anche pianificare l’uscita da quelle vecchie. La persistente presenza in Italia di incentivi alle fonti fossili, stabilmente superiori a quelli destinati alle energie rinnovabili, va in direzione opposta a quella auspicabile.

L’articolo è pubblicato nelle pagine di QualEnergia di luglio/agosto 2025

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Michele Governatori

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