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in quali regioni scatta lo stop


Il calendario del fermo pesca 2025 entra nel vivo. Dopo settimane di attesa e confronti tra operatori, istituzioni e associazioni di categoria, lo stop lungo l’Adriatico diventa ufficiale: da Trieste a Bari le flotte rimarranno all’ancora fino a fine settembre.

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La misura è necessaria periodicamente per consentire il ripopolamento degli stock ittici, ma inevitabilmente apre una serie di interrogativi economici, sociali e commerciali.

Le aree interessate dal fermo pesca

Il fermo pesca, previsto dalla normativa europea e nazionale, si articola a scaglioni.

Già da inizio agosto le imbarcazioni da strascico tra Trieste e Ancona hanno interrotto le attività.

Dal 16 agosto al 29 settembre lo stop si estende anche al tratto di costa che va dal Sud delle Marche fino alla Puglia, coinvolgendo dunque San Benedetto, Termoli, Pescara, Manfredonia e Bari.

La sospensione proseguirà poi in autunno, con il blocco dal 1° al 30 ottobre che interesserà le marinerie dello Ionio, del Tirreno e delle Isole.

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In sostanza, per quasi tre mesi l’intero comparto nazionale della pesca industriale sarà fermo a rotazione, con inevitabili ripercussioni sui mercati e sui consumi.

Il pesce italiano non scompare dalle tavole

Un aspetto da chiarire subito è che il fermo non equivale a scaffali vuoti.

Il pesce fresco italiano continuerà ad arrivare nei mercati grazie alla piccola pesca artigianale, all’acquacoltura e alle draghe idrauliche che non rientrano nel blocco. A questo si aggiungono i prodotti provenienti da aree non soggette a fermo, garantendo comunque una presenza, seppur ridotta, di pescato nazionale.

Coldiretti Pesca invita però i consumatori a prestare particolare attenzione alle etichette per riconoscere il pesce straniero.

Nei banchi di pescherie e supermercati la legge obbliga a indicare la provenienza e la zona di cattura, distinguendo il Mediterraneo con la dicitura FAO 37.

Una trasparenza che non si ritrova invece nei ristoranti, dove spesso manca l’indicazione della provenienza e dove la probabilità di consumare pesce d’importazione cresce in maniera significativa.

Qual è il pesce “di stagione” adesso

Il fermo pesca rappresenta anche un’occasione per educare i consumatori a seguire la stagionalità del pescato.

In questo periodo, i mari italiani offrono soprattutto

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  • alici;
  • sarde;
  • sgombri;
  • sugarelli;
  • ricciole;
  • cefali;
  • triglie;
  • gallinelle;
  • scorfani;
  • seppie;
  • calamari;
  • polpi.

Più difficile invece trovare merluzzi, naselli, sogliole e rombi, spesso sostituiti da prodotti di importazione.

La scelta consapevole è un modo per sostenere l’economia locale e ridurre la dipendenza dall’estero. Mangiare “di stagione” non vale soltanto per la frutta e la verdura: anche il pesce segue cicli naturali che andrebbero rispettati e valorizzati.

La dipendenza dall’import e le conseguenze economiche

Il nodo centrale resta comunque la crescente dipendenza dall’estero.

Negli ultimi 40 anni la quota di pesce importato in Italia è passata dal 30% al 90%. Solo nel 2024 sono arrivati 840 milioni di chili di pesce dall’estero, a fronte di una produzione interna che si è fermata a 130 milioni.

Questo squilibrio mette in luce la fragilità del settore ittico nazionale e un Mediterraneo in crisi profonda.

Non solo una flotta ridotta e in difficoltà, ma anche un’intera filiera che fatica a competere con i prezzi e i volumi del mercato globale.

L’Italia, pur essendo una penisola con oltre 7.000 chilometri di coste, dipende in larga misura dall’import per soddisfare la domanda interna, con conseguenze dirette sia sul piano economico che su quello della sicurezza alimentare.

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Un settore sotto pressione

Il fermo pesca del 2025 si innesta quindi in un momento particolarmente delicato per il comparto, soprattutto considerando proposta di bilancio della Commissione Ue, che prevede infatti un taglio drastico dei fondi destinati al settore ittico europeo: da 6,1 miliardi a poco più di 2 miliardi, con una riduzione del 67%.

Per Coldiretti Pesca un simile ridimensionamento rischia di compromettere la sopravvivenza di molte imprese già provate da anni di difficoltà e dalla concorrenza.

Basti pensare che, solo negli ultimi decenni, la Flotta Italia ha perso un terzo delle proprie imbarcazioni e circa 18.000 posti di lavoro. Una emorragia occupazionale che si somma ai costi crescenti per il carburante, alle normative sempre più stringenti e alla concorrenza internazionale.

Il fermo pesca ha dunque una doppia valenza economica:

  • rappresenta un investimento sul futuro, necessario a garantire la sostenibilità biologica degli stock e a preservare una risorsa che rischia di esaurirsi;
  • genera un immediato effetto negativo sui bilanci delle marinerie, costrette a sospendere l’attività e a fare affidamento sugli indennizzi statali e sui contributi europei, spesso percepiti con ritardi.

La prospettiva di un taglio dei fondi Ue complica la situazione ulteriormente, aprendo scenari di maggiore incertezza. Se da un lato la sostenibilità ambientale è ormai un obiettivo imprescindibile, dall’altro non si può trascurare la sostenibilità economica e sociale delle comunità che vivono di pesca.

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