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A cosa servono le città


Fra tutte le grandi città della Mesopotamia del IV millennio A.C., una si distingue sulle altre: Uruk. Per una motivazione molto semplice: è considerata, oggi, come la prima città mai creata nella storia. Le città non sono solamente grandi centri in cui migliaia, milioni di uomini risiedono, lavorano e viaggiano; non sono solamente dei grandi agglomerati di cemento, acciaio, luci e cavi; le città, in particolare le metropoli e le capitali, si distinguono soprattutto per la loro facoltà di attirare e creare possibilità, uomini, idee, decisioni e intere civiltà. E si prestano anche per le rappresentazioni e per legittimare il potere tanto legislativo e tanto ontologico di coloro a cui queste città appartengono: dai re agli stati.

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Diverse sono le fasi che hanno scandito non solo la storia e la struttura delle città, ma soprattutto il loro spirito: ai tempi di Uruk le città divennero centri in cui la vecchia vita nomadica venne abbandonata (insieme anche al più naturale e semplice modo di vivere dell’uomo) per la sicurezza della stabilità e la complicazione dei ruoli e, soprattutto, delle identità fra gli uomini; ai tempi di Roma antica le città divennero i centri della creazione, del potere, del prestigio e dell’influenza di imperi universali; ai tempi della Parigi rivoluzionaria le città divennero i centri dello scardinamento degli ordini e della creazione di nuove realtà sempre più indipendenti (ma non realmente libere) dagli assoluti politici ed esistenziali; ai tempi della Mosca di un’URSS ormai collassata e della fine di qualsiasi contrapposizione fra ideologie e grandi narrazioni; infine, come ai nostri tempi, ovvero quelli di Shenzhen, le città assurgono ora al ruolo di centri del puro sviluppo e della sperimentazione tecnologica, culturale e politica. Ma tutti questi grandi centri non sono unicamente degli agglomerati di persone ed edifici unitesi e creati per via di necessità prima legate alla sopravvivenza e poi allo svilupparsi e al complicarsi delle società e culture composte, ma sono, in primis, dei veri e propri centri di raccolta di informazioni e di controllo, finendo per divenire delle vere e proprie entità autonome.

Non si tratta di sole immagini figurative per cercare di mostrare le città solo come delle giungle urbane e come strumenti di potere da parte delle classi dominanti di ogni società: le città, soprattutto nell’epoca contemporanea, sono realmente l’incanalazione di quella che è la disgregazione delle narrazioni e di ogni Identità; l’automatizzazione dei processi sociali e della vita dei singoli; la creazione e la rigenerazione continua di desideri e necessità artificiali. Insomma, le città e, in particolare, le nostre grandi metropoli, sono dei poli sia autoreferenziali e sia facenti parte di una rete più vasta e mondiale legata allo sviluppo, al consumo e alla speculazione che trasformano i fatti, le idee, i soggetti e le contrapposizioni in delle “cariche energetiche” meno definite e, dunque, dal potenziale consumistico-speculativo più elevato e ampio. La città, così, non solo detronizza tutti i termini (e quindi le essenze) che creano una parvenza di stabilità, razionalità, uniformità e linearità nell’esistenza degli uomini, ma detronizza anche gli stessi re e gli stessi stati, finendo per prendere il loro posto in quelle che sono le visioni strategiche ed esistenziali di ogni civiltà.

Come afferma Rousseau nella sua opera “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”, l’uomo, allo stato di natura, viveva in una condizione di semplicità e libertà la quale gli offriva una vita equilibrata e definita su dei canoni che non gli arrecavano alcun tipo di crisi e corruzione nella sua natura e vita. Ma il suo relazionarsi con un numero sempre maggiore di uomini, di complicazioni sul piano sociale, economico, materiale e informazionale lo portò alla creazione delle civiltà, ovvero un’enorme sovrastruttura in cui tutta la mole di informazioni ricevute precedentemente potesse essere raffinata e condivisa in modo più chiaro fra tutti gli individui. Ciò, però, nella visione del filosofo ginevrino, portò anche a una corruzione dell’uomo stesso e dei suoi bisogni, ponendo la dipendenza reciproca e l’artificialità dei bisogni al di sopra della libertà e dei bisogni più immediati e naturali. Oppure, come afferma lo storico e filosofo Yuval Noah Harari nel suo saggio “Sapiens, da Animali a Dèi”, l’uomo, da una vita libera ma anche molto pericolosa è finito per vivere in enormi comunità e insediamenti per cercare una maggiore stabilità, ma al contempo è finito col rinunciare a questa sua libertà e a creare delle società sempre più complesse grazie alla creazione di veri e propri codici, i quali sarebbero delle realtà immaginate e continuamente simulate (come i miti, le leggi, le gerarchie, il denaro, etc.).

In entrambe queste analisi e, generalmente, in quella che è la “natura” stessa delle città, ovvero quella di essere degli agglomerati di persone, materiali, necessità e potenzialità, la visione che ne esce fuori è la seguente: l’uomo, seppur dotato di una capacità di saper essere libero coscienziosamente e anche senza esser interdipendente in una società complessa e stratificata, al contempo è dotato anche di un’intrinseca necessità di dover generare delle realtà simulate che non gli servono unicamente per adattarsi alla vita sociale e alla crescente mole di informazioni che riceve e deve elaborare e/o scartare, ma queste realtà simulate sono parte integrante del funzionamento di quello che è, a tutti gli effetti, un “oggetto senziente” – ovvero l’uomo stesso. E le città, in ciò, nel loro complicare e generare ulteriormente questo tipo di realtà simulate, divengono il più grande catalizzatore e anche disgregatore dell’Identità dei soggetti, costringendoli così a doverli far rientrare in un circuito chiuso di codificazioni verso cui tutte le successive realtà simulate individuali/collettive degli oggetti senzienti sono autodirette. Paradossalmente, le città non sono delle costruzioni umane, ma è l’uomo stesso che ritorna alla città, la quale è il principale snodo in cui convergono tutte queste “macchine desideranti e simulative”.

Ma la città non è solo un simbolo e un’immagine evocativa che spinge gli uomini a ritornare a lei e a vivere secondo dei canoni stabiliti dalla città stessa: tutte quante le attività economiche, commerciali e finanziarie; l’architettura di ogni città; i suoi poli culturali e socio-economici sono tutti atti a incentrare in spazi-intensivi quelli che sono i desideri degli abitanti e, così, anche le necessità e strategie politiche e amministrative che la città deve assumere. Tutto, dunque, è regolato dalla città affinché ogni singola attività porti alla produzione, all’alimentazione e al consumo di desideri e persino della materia stessa: dalle aree commerciali a quelle residenziali; dai poli artistici a quelli politici; dalle aree verdi e dedicate interamente ai cittadini a quelle autostradali e industriali; dalle zone chic a quelle popolari. Tutto ciò si pone al servizio della città non tanto e solo come conseguenza di decisioni politiche o di dinamiche storico-sociali, ma anzitutto come creazione di “zone-mentali-specifiche” il cui ruolo e immagine servono per creare nei cittadini e nell’amministrazione stessi dei precisi codici e dati già elaborati che servono per far funzionare quelle stesse zone che la città aveva già pianificato.

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Da ciò, oltretutto, non nasce solo il carattere consumistico-speculativo delle aree e delle città, ma anche quello legato al controllo dei cittadini stessi: un tipo di controllo esercitato tanto con la coercizione e l’implementazione di norme che non cerchino di fondare formalmente e ufficialmente uno specifico tipo di società, di uomo nuovo, etc., ma che sono riferite a un tipo di sorveglianza la quale sfrutta delle contingenze di precarietà e sovraffollamento e, soprattutto, la “percezione della sicurezza” dei cittadini stessi che è già implementata nel pattern: “con le forze dell’ordine, insieme a controlli e agli oggetti della sorveglianza (es. telecamere) otteniamo più sicurezza” – e, dunque, apparente libertà. E oltre a ciò, viene esercitato anche un tipo di controllo tramite il continuo ripristino e autoreferenzialità dei codici di condotta e di simulazione-narrazione creati sia dalle zone-mentali-specifiche e sia da un altro elemento tanto speculativo e tanto di puro controllo: la stratificazione in micro-identità-parziali, le quali sostituiscono le grandi classi sociali e categorie ontologiche.

Per micro-identità-parziali si intendono tutte quelle categorie di persone che, pur vivendo all’interno della medesima società, non si riconoscono più in delle macro-categorie di tipo sociale, economico e politico, come le classi sociali, i gruppi etnici, i partiti politici, le fasce d’età, etc.. Questi individui, così, creano nuovi tipi di associazione, in cui a contare non è più uno stato reale e ben definito che li accomuna pur nelle differenze individuali, bensì è la somiglianza di interessi e visioni di quegli stessi individui, i quali spesso formano e si riconoscono in questo tipo di associazioni con la motivazione di liberarsi dal peso dei codici e delle simulazioni-narrative più rigide e generali.

Ed è proprio per questo motivo che vengono definite come “parziali”: pur volendosi liberare dalle forme dei vecchi codici, delle vecchie visioni e associazioni culturali, religiose, politiche, etc., non si liberano della codificazione stessa, generandone così un tipo meno rigido ma, al contempo, più malleabile e disgregato – cosa che la città sfrutta e incentiva per alimentare la propria carica speculativo-consumistica e il proprio controllo sulla popolazione e sulla sua produzione. Ciò, inoltre, è un processo che colpisce ogni tipo di micro-associazione: da quella più rigida e legata a una propria individuale identità (come un gruppo etno-religioso) a quella più fluida e legata agli interessi e desideri dei suoi singoli “componenti” (come una comunità digitale). Ogni contrapposizione è automaticamente risolta nella sempre più esclusività di ogni micro-identità-parziale e nel fatto che, all’interno della città stessa e della sua società basata sui ritmi del consumo autorigenerativo, ebbene ogni gruppo può trovare il proprio “snodo” (come un nuovo tipo di moda, oppure una qualche nostalgia per il passato, o ancora un qualche tipo di distrazione dai propri obblighi sociali, etc.) in cui poter accumulare, catalizzare e consumare le proprie energie – ovvero, le azioni, i bisogni e persino la contrapposizione stessa continuamente generati proprio dai loro codici di simulazione-narrazione. In questo modo ogni dialettica del conflitto non è annullata, ma resa abbastanza forte per continuare a persistere all’interno della città e della sua società ma senza che diventi troppo forte per far implodere il sistema stesso, creando così uno stato di perpetua sottomissione ai codici ontologici, ai vincoli sociali e alle pratiche di biohacking dell’entità-città.

In sintesi, le città (e in particolare le metropoli contemporanee) non sono realmente il frutto di pure necessità sociali, storiche e tecniche, il cui sviluppo è gestito dagli uomini. Le città sono delle entità viventi inorganiche, che tramite la loro accumulazione e gestione di informazioni, dati, codici, simulazioni, speculazioni e controllo sugli uomini stessi rendono questi ultimi dei meri componenti della programmazione urbana e del loro sostentamento, riducendo, inoltre, ogni conflittualità fra i vari gruppi umani in delle lotte e contrapposizioni che si risolvono sempre all’interno del medesimo circuito, senza minare il funzionamento dello stesso e aumentandone di volta in volta l’efficienza.

Nelle logiche di codificazione, manipolazione e consumo delle realtà sociali e simulativo-narrative create e messe in atto dalla città, ve n’è un’altra in particolare, la quale non solo determina poi il funzionamento di questo stesso circuito e la sua generale e programmata accettazione, ma determina anche il fatto che l’entità politica, nelle città, non abbia più alcun valore, e che lo stato stesso perda la propria sovranità e legittimità nelle aree urbane come principale punto di riferimento tanto sociale e politico e tanto simulativo-narrativo. Dunque, lo scenario che si intravede è quello di città come entità intelligenti il cui potere economico, tecnologico e speculativo (tramite il riuscire ad attirare e monopolizzare capitali, innovazione, uomini e culture da omologare nel proprio circuito e a creare bisogni e narrazioni artificiali) le rende de facto dei territori in grado di esercitare sullo stato centrale un potere così elevato da far dipendere le prospettive e l’agire politico dello stato dal grado di sviluppo e consumo delle stesse città. Ma al contempo, quelle che sono, a tutti gli effetti, delle città-stato, seppur largamente autonome, non sono completamente autosufficienti, anzi: se su piccola scala (ovvero, sul proprio territorio) esse sono più dei centri intensivi di ricerca, accumulo e smistamento di tecnologia e beni, in un contesto più ampio (ovvero, quello della raccolta e gestione delle risorse sia sul territorio nazionale e internazionale) tali città hanno ancora necessità dello stato come hub in cui poter convogliare risorse, decisioni e flussi di dati sempre maggiori che provengono non solo dalle città stesse, ma anche dal resto del territorio nazionale e internazionale. Inoltre, l’utilizzo dello stato da parte delle città dipende anche dalla formazione sia dell’entità-città stessa e sia anche di quelle “caste” che vengono privilegiate. Così come nel medioevo i nobili decisero di porre dei limiti al potere e alla legittimazione dei re tramite i contratti feudali, così anche le città-stato odierne pongono un freno sia allo stato centrale tramite la propria forza e ricchezza e, al contempo, creano in sé un circuito contrattualistico fra tutte le parti operanti nelle città, le quali alcune, adattandosi meglio ai ritmi e possibilità della città, riescono a creare dei gruppi in cui poter accumulare e gestire il potere speculativo e amministrativo al di sopra delle altre parti.

In particolare, tre sono i macro-tipi di città-stato presenti, e tre sono le rispettive “caste” costituite da piccoli gruppi appartenenti proprio a delle micro-identità-parziali: il primo tipo sono le città-stato autonome e in contrasto con lo stato, ossia, essendo tipicamente presenti in nazioni in cui lo stato ha ancora un ruolo formalmente presente seppur non invasivo, tali città possiedono una propria autonomia in campo amministrativo, giuridico, legislativo e persino politico, ma devono ancora confrontarsi con uno stato il quale non ha il potere di poterle guidare per i propri interessi e a cui, giuridicamente, garantisce un margine di libertà abbastanza ampio da lasciarle proprio la possibilità di competere con lo stato stesso. è il caso di città come Parigi, Londra, Berlino o Mosca. La casta di riferimento di questo tipo di città può esser definita come composta da “feudatari finanziario-intellettuali”, ovvero di gruppi e personalità del mondo economico-finanziario privato ma anche di organizzazioni nazionali/sovranazionali e che svolgono anche un ruolo nella definizione morale e politica incentrata sul rebranding di quei codici morali e politici, sia delle città e sia degli stati (come le grandi multinazionali legate ai settori produttivi e non già puramente speculativo-finanziari, come i beni di lusso e l’industria pesante; oppure organismi legati all’UE, per gran parte d’Europa, o di altri legati a quelle stesse imprese economiche, in particolare in Russia, come la Gazprombank). Fra le tre caste, questa è quella considerabile come la più “conservatrice”, dato il fatto che è la meno interessata tanto a un indebolimento e tanto a un rafforzamento dello stato e anche per il fatto che basa la propria codificazione economico-sociale sul mantenimento di assets stagnanti, senza puntare a uno sviluppo speculativo o sperimentale, ma solo a un miglioramento tecnico dei propri impianti di produzione e delle catene logistiche e, dunque, anche a una stabilità dei mercati. Si tratta, dunque, di una forza a bassa frequenza che intende vivere di rendita e assicurarsi stabilità con, al massimo, degli investimenti mirati al miglioramento della produttività ed efficienza delle attività già avviate.

Il secondo tipo di città-stato è quella “speculativa” e parte di un sistema già di per sé decentrato e parziale. Per speculativa e parziale si intende dire che, nel primo termine, tali città sono il centro in cui convergono tutte quelle tensioni-energetiche (idee visionarie, capitali, tecnologie sperimentali, compagnie off-shore, etc.), creando così una carica-potenziale di costruzione, applicazione e ricerca tecno-sociale in grado di modificare le realtà presenti costruendo strutture di pensiero, socio-economiche, spaziali, etc. del tutto nuove e indipendenti dai contesti storico-culturali e, dunque, “identitari”. Con il secondo termine, ovvero “parziale”, si fa riferimento proprio a quel tipo di identità-formali-a bassa intensità in cui vi è un sovvertimento delle forme di identità ma senza rinunciare alla stessa, formando così una base abbastanza fluida da poter ancora avere dei capisaldi su cui sviluppare quelle che sono o delle micro-comunità chiuse o, al contrario, delle iperstizioni, e su cui poter anche fondare la propria legittimità su di un piano quasi “ermeneutico”, inteso come pratica di saper fondare determinati tipi di realtà partendo dall’interpretazione prospettica di tutte le parti in campo, senza giungere ad alcuna organicità sociale, intellettuale e politica. Città come San Francisco, New York, Taipei o, parzialmente, anche Singapore e Seul rientrano in questo tipo di categoria.

Mentre i vassalli dei loro circuiti interni rientrano in nella casta dei “mercanti-alchimisti cibernetici”, ovvero delle compagnie e figure le quali sfruttano il potenziale della speculazione finanziaria, dell’investimento a lungo termine sulle tecnologie e impianti di produzione sperimentali e dell’assenza di uno stato altamente centralizzato e che detiene il monopolio dell’autorità legislativa ma anche etico-politica per formare non solo delle grandi imprese con l’intento di capitalizzare il proprio sviluppo e reinvestirlo per una sempre migliore performatività, ma anche per usare quelle stesse imprese come “laboratori di miscelazione” in cui vengono sperimentate e messe a punto teorie e tecnologie all’avanguardia e, soprattutto, infrangenti i vecchi ordini e corpi sociali e intellettuali. Esempi citabili sono le big-tech statunitensi e coreane, oppure le compagnie di Taipei di produzione di microchip e altri componenti essenziali per la tecnologia moderna, o anche le start-up legate allo sviluppo dell’IA, o ancora le imprese di e-commerce e logistica di Singapore.

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Infine, la terza tipologia di città-stato è quella “sperimentale” e parte integrante del “sistema tecnico-statale”. In questo caso, si parla di sperimentazione poiché questo tipo di città-stato, prevalenti in Asia e che come esempi vi sono Shenzhen, Tokyo, Hong Kong e anche Seul e Singapore, ebbene pur avendo un’ampia autonomia in termini legislativi, giuridici ed economico-urbanistici, rimangono comunque molto legate a un tipo di pianificazione e/o regolazione burocratica e collettiva in cui, però, non devono necessariamente sottostare a rigide implementazioni di regolamenti e piani di sviluppo (fatta eccezione per Singapore, dato che è essa stessa una città-stato in toto).

Dunque, lo scenario stabilitosi è quello di città altamente sviluppate, intelligenti e autonome che godono di una potenza produttiva e di sviluppo elevatissima, ma che al contempo è regolata dalle necessità di un’autorità che possiede maggior legittimazione più sul piano simulativo-narrativo che su quello legislativo e politico. è come se tali città, seppur autonome, fossero unite in una grande confederazione che richiede degli sforzi comuni per evitare che ogni città venga tagliata fuori dalle possibilità legate proprio a questo sviluppo congiunto. Inoltre, tale sperimentazione è legata anche all’introduzione formale di norme che utilizzano tanto la tecnologia sviluppata quanto il desiderio di sviluppo per sperimentare sulla popolazione e società stessa tipi migliori e più efficienti di governance. Da qui il nome di questa enorme confederazione, ovvero il sistema tecnico-statale: uno stato che, seppur governato da un’autorità politica, non agisce come un corpo organico in cui cerca di soddisfare solamente i bisogni naturali e alcuni bisogni artificiali (come il consumo di beni) dei propri cittadini cercando di agire rispettando l’assetto storico-culturale e, dunque, “naturale” della società, ma è uno stato che agisce in base a programmazioni di specifiche necessità produttive, di investimento e anche simulativo-narrative e che amministra i propri possedimenti tramite logiche di performance, efficienza, competitività e pragmatismo. In poche parole: un vero e proprio governo tecnocratico.

E i rappresentanti di questo tipo di città-stato non sono da meno, ovvero una casta di “burocrati tecnomanti” che, appunto, anche quando operano da privati e in settori legati allo sviluppo di tecnologie all’avanguardia o anche a servizi legati all’efficientamento delle reti logistiche, commerciali o attinenti alle zone-mentali-specifiche, ebbene queste compagnie e figure sono sempre legate e interdipendenti con gli organi statali e delle altre città-stato, i quali devono seguire una linea comune – ma con ritmi diversi – per potersi garantire il successo nelle proprie operazioni, anche quelle più innovative e visionarie. Dunque, tutte queste moderne città-stato autonome e intelligenti, seppur con le proprie caratteristiche peculiari e composizioni interne, sono caratterizzate da un nuovo tipo di potere legislativo, esecutivo e giuridico: quello dell’amministrazione, ossia della gestione efficiente, regolata da feedback e le cui contraddizioni si assopiscono e i micro-conflitti interni al sistema vengono risolti sempre entro i confini e le programmazioni del sistema stesso.

Seppur le decisioni sulla legiferazione interna e suoi piani di politica estera sono ancora lasciate in mano, in ultima istanza, agli stati e ai governi centrali, le città-stato hanno un peso sempre maggiore nell’indirizzare le strategie, le spese, gli investimenti e, dunque, il monopolio del potere e dell’influenza sulle politiche di un’intera nazione. Così, dal primato dello stato si sta sempre più passando all’oligopolio fra lo stato centrale e le città-stato (sia sul piano delle singole nazioni e sia su quello internazionale), in cui entrambe le parti interdipendono e competono fra di loro.

Le grandi città globali – da Mosca a Shenzhen, da San Francisco a Bruxelles, da Hong Kong a Tokyo – rappresentano oggi nodi amministrativi e normativi sempre più autonomi rispetto agli Stati, spesso dotati di strutture ibride che coniugano governance locale, poteri speciali e proiezione internazionale. Queste metropoli funzionano come centri legislativi, finanziari e tecnologici, in cui si concentrano non solo le decisioni politiche, ma soprattutto quelle economiche e infrastrutturali. Parallelamente, il potere economico mondiale si articola attraverso grandi istituzioni e imprese: dalla Russia dominata da conglomerati statali energetici e finanziari, agli Stati Uniti guidati dalle Big Tech e dalla finanza, passando per le economie dinamiche dell’Asia orientale (Corea del Sud, Taiwan, Singapore) e per l’Europa, con i suoi poli bancari, industriali e tecnologici. Ne risulta un sistema multipolare in cui città, imprese e istituzioni non sono più semplici strumenti di mediazione statale, ma attori globali veri e propri. La governance del mondo contemporaneo appare dunque frammentata e stratificata: da un lato gli Stati continuano a esercitare sovranità formale, dall’altro metropoli e conglomerati economici operano come centri effettivi di potere, generando un paesaggio politico in cui il classico schema Stato-nazione è sempre più affiancato, e in certi casi surclassato, da logiche urbane, economiche e transnazionali. E a monte di tutti questi cambiamenti vi è qualcosa di più profondo: la città come entità che, liberandosi di qualsiasi ente al suo interno, finisce per attrarre, disgregare e rimodulare continuamente il proprio assetto e i suoi componenti, finendo così per alienare quest’ultimi e alimentare la propria espansione – sia in termini strettamente materiali, e dunque urbanistici, economici, tecnologici, etc., e sia in termini esistenziali, ponendo le proprie strutture e i propri codici al di sopra di quelli degli uomini.



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